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lunedì 2 marzo 2009

Recensione libro La luna e i falò

Anguilla è un orfano adottato da una famiglia di contadini solo per ricevere mensilmente cinque lire di compenso.

Dopo quarant'anni egli torna ricco dall'America nel paese in cui è cresciuto e scopre che tutto è cambiato, che le persone che lui amava sono morte, le cascine abbandonate oppure abitate da estranei e che solo il paesaggio è rimasto insensibile al passare del tempo. Si rende però conto che anche se molte cose sono cambiate, le persone sono sempre uguali, sempre rozze e miserabili. Durante la sua permanenza egli incontra Cinto, che gli ricorda se stesso da bambino e ripensa agli avvenimenti più importanti accadutegli durante l'infanzia e l'adolescenza e alle persone che più hanno influenzato la sua vita. Il suo viaggio nel paese natale è per lo più un viaggio nei propri ricordi, è più un tentativo di riportare in vita vecchi sentimenti, persone ormai scomparse, vecchie situazioni. Egli torna per ritrovare se stesso, le sue radici, per confrontarsi con il proprio passato, per capire che è diventato ricco, ma che dentro di se è sempre stato un povero contadino (come dimostrano le sue mani, che ancora portano gli antichi segni). Egli ripensa all'amore platonico che lo legava alle due padroncine Silvia e Irene, racconta la loro adolescenza, ripensa alle feste a cui si recava, al suo primo salario, a quando credeva che il mondo iniziasse e finisse in quel piccolo paese sulle colline e il suo unico desiderio era diventare come il suo amico e maestro Nuto. Sono ricordi allo stesso tempo dolci e amari, di un passato che vorrebbe riconquistare, ma che sa di non potere. E allora proietta se stesso giovane nella figura di Cinto e desidera cambiargli la vita, fargli vivere un infanzia più simile alla sua, dargli una speranza per il futuro. I ricordi di una vita si intrecciano ad amari avvenimenti presenti, a nuovi falò non più accesi per rallegrare le feste, ma per uccidere e distruggere e a cadaveri che testimoniano la crudeltà di una guerra.
Nuto

Nuto è l'amico d'infanzia del protagonista, la persona a cui sempre aveva voluto assomigliare, ma che mai riusciva ad eguagliare. Eppure una volta tornato nel suo paese d'infanzia egli scopre con meraviglia di averlo raggiunto, di non avere più nulla da invidiare all'amico, a colui che aveva considerato un modello di vita, perché anch'egli, come Nuto, aveva viaggiato, era stato a lungo lontano da casa, aveva imparato a confrontarsi con gli altri e a cavarsela da solo. Nuto, non più un maestro, ma un amico alla pari, rimane comunque un suo punto di riferimento, l'unica persona a cui chiedere consiglio e l'unico con cui poter ricostruire gli avvenimenti accaduti mentre era lontano. Nuto è spesso presente nei suoi ricordi d'infanzia e il protagonista non lo trova affatto mutato nel corso degli anni, se mai era lui stesso ad essere cambiato, ad essere finalmente maturato.
Cinto

Cinto è un bambino zoppo e molto solo che viveva con il padre, la zia e la nonna vecchia e malata, nella cascina che era stata la prima casa del protagonista. Attraverso Cinto egli rivive i primi anni della sua vita, quando ancora non lavorava alla mora e lui e la sua famiglia vivevano in miseria, lavorando tutto il giorno per procurarsi il pane. La sua infanzia, nonostante la miseria, era stata comunque allietata dalla presenza delle sue sorellastre e della sua matrigna, mentre Cinto non aveva neanche questa consolazione, in più, a causa della deformità dell'arto non avrebbe mai potuto avere una vita normale. Ecco perché subito il protagonista si affeziona al ragazzo, tenta di aiutarlo, di fargli scoprire nuove cose di aprirgli gli occhi verso nuovi paesi e diversi orizzonti. Ecco perché in seguito gli regala il coltello che poi gli salverà la vita. Cinto vive con la quotidiana paura del padre che picchiava animali e persone e che poi arriva addirittura ad incendiare la cascina e ad uccidere la cognata e la madre, distruggendo così non solo la propria casa, ma anche l'unico simbolo, l'ultima testimonianza dell'infanzia del protagonista.
Silvia

Silvia era la maggiore delle due sorelle che abitavano nella cascina in cui egli faceva il servitore e verso cui il protagonista ha sempre provato un tenero affetto, benché troppo giovane per risvegliare il loro interesse. Silvia non solo era la maggiore, ma era anche la più vivace, la più intraprendente, quella più esuberante e meno rispettosa delle regole. Sempre circondata da corteggiatori, così come la sorella, viveva la propria vita fino in fondo, assaporandone ogni atto e agendo talvolta in modo impulsivo, impulsività che alla fine la porta alla morte. Il protagonista racconta le sue avventure amorose, le sue relazioni con varie uomini, i pettegolezzi che facevano su di lei i servitori. Ogni volta che una storia finiva male, che un uomo l'abbandonava Silvia sapeva reagire grazie alla sua grande forza di volontà e alla fine si riprendeva sempre, anche grazie all'aiuto della sorella con cui era molto legata. Silvia rimane però incinta e, tentando di abortire, muore a causa di un'emorragia.
Irene

A differenza della sorella, Irene era molto calma e tranquilla, non agiva mai d'impulso né compiva alcuna pazzia. Era l'opposto di Silvia, riflessiva, giudiziosa, mite e paziente. Le sue storie non erano mai appassionate come quelle della sorella, ne i suoi uomini tanto particolari. In un certo senso Irene, a confronto con la sorella, era banale e insignificante. Amava la musica e sapeva suonare il pianoforte alla perfezione e la sua musica aveva il potere di incantare il protagonista. Anche Irene è morta in giovane età, infatti, convinta dai genitori, sposa un uomo avido e violento e dispiaceri per questo matrimonio la portano ad una morte prematura.
Santa

Santa è la sorellastra di Irene e Silvia. Già da piccola era bellissima, e crescendo divenne una splendida ragazza. Il protagonista la conosce solo da bambina, ma viene a sapere della sua storia tramite Nuto. La ragazza, una volta cresciuta, conosce e frequenta numerosi fascisti, poi diventa una spia dei partigiani, da cui alla fine viene uccisa, perché si scopre riferiva importanti informazioni ai fascisti. Santa era impavida e impulsiva come la sorellastra Silvia, ma nello stesso tempo ipocrita, bugiarda e falsa.
Due versioni per un tema su Pavese
L'armonia del mito e la disarmonia della storia ne "La luna e i falò" di Cesare Pavese. Dimostrare quest'affermazione facendo riferimento al testo letto ed alle problematiche personali dell'autore.

Troppe volte nella nostra vita ci incontriamo (o scontriamo) con la differenza tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è. Ma ormai, nella società in cui viviamo, non ci si bada più, e la maggioranza della gente guarda con una punta di disprezzo coloro che si pongono certi inutili problemi. D'altro canto, la stessa maggioranza della gente, presa dalle piccole e grandi imprese che è costretta a compiere per sopravvivere o per guadagnare o anche solo per esistere un minuto di più, non comprende un piccolo ma importante gruppo di diversi, di coloro che queste domande se le pongono. A mio avviso i grandi pensatori, i letterati, i poeti i musicisti e i pittori non possono che porsi questi grandi dilemmi, o altrimenti sarebbero persone comuni, e non susciterebbero scalpore né tra la gente, né tra i critici. Talvolta riescono addirittura a convivere con questi dubbi atavici, talvolta no. Al secondo gruppo appartiene Cesare Pavese, intellettuale, letterato, dilaniato tra la dura realtà dell'essere ed il mero fascino del voler essere, che finisce così, nella tristezza di un afoso giorno di agosto in una camera d'albergo di Torino.Un altro contrasto è fondamentale in Pavese: mito e storia. Ma che senso assume qui la parola "mito"? L'uomo ricorda la propria infanzia come un periodo dolce e tenero, durante il quale sono state compiute le prime esperienze: il bambino cancella i brutti ricordi e esalta a livello di mito quelli belli, che da adulto non ricorderà obiettivamente, ma sempre con una punta di tenerezza. Quei ricordi lo accompagneranno per tutta la vita, e lo guideranno nelle piccole avventure e disavventure di ogni giorno. «Tutto è nell'infanzia, anche il fascino che sarà a venire… Così a ciascuno i luoghi dell'infanzia ritornano alla memoria; in essa accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico».
Entriamo nell'universo de "La luna e i falò", l'ultimo e, secondo alcuni, il miglior libro di Pavese. Anguilla, il protagonista, è un trovatello che è cresciuto sulle colline delle Langhe (come il suo autore), allevato da una famiglia di contadini, che lavorano le terre della Gaminella, podere vicino al fiume Belbo. Dopo alcuni anni passati a fare il contadino nelle terre della Mora, aspira a far fortuna e quindi va a vivere a Genova e poi s'imbarca per l'America. Da qui, durante una notte passata nel suo camioncino bloccato in mezzo uno sterminato ed estraneo deserto degli Stati Uniti, decide di ritornare e riacquistare le proprie origini. Il romanzo, narrato in prima persona (Pavese s'identifica con lui), comincia con il suo ritorno nel paese d'origine, ed intreccia le vicende del protagonista con i ricordi dell'infanzia e anche del breve periodo trascorso a Genova e dei lunghi anni passati in America. Man mano che la narrazione procede, si apre sempre di più una spaccatura tra la realtà come Anguilla la ricordava, il Mito, e la realtà come Anguilla la ritrova, modificata dall'incessante scorrere del tempo ed dall'evolversi delle cose, dalla Storia. Anche lui, come Pavese, si scopre uno sradicato.
Mentre Anguilla conduce la sua vita da emigrante in America, in Italia scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Quando la guerra mondiale diventa guerra civile, il paesino sul Belbo è sconvolto. Gli odi tra fascisti e partigiani diventano sempre più aspri. Pavese assegna alla guerra un ruolo estremamente negativo, in contrasto con l'ideologia alla quale aderisce. Pavese si proclama comunista, ma non riesce ad essere un militante, pratico e pragmatico: non resta che un intellettuale, timido e introverso, che vorrebbe ma non può. Può solo inventare un personaggio del suo romanzo, Nuto, l'artigiano comunista amico d'infanzia di Anguilla, e farlo incontrare con Anguilla, sé stesso fatto inchiostro. Ma la guerra c'è stata, e la storia è andata avanti. Anguilla conosce un ragazzino di dieci anni, Cinto, figlio del povero e violento Valino, l'uomo a cui era stato affidato il podere in cui Anguilla aveva vissuto da bambino. Rivedendo in lui i miti della propria infanzia, un giorno inizia a raccontare rapito. A un certo punto, mentre parla, viene interrotto dalla dura realtà per bocca di Cinto: «"Nella riva l'altr'anno c'era un morto" disse Cinto». Il ricordo è stato profanato, quel mito è definitivamente relegato alle cose passate. La Storia è andata avanti.
Altro momento cruciale del romanzo, è il falò del Valino. Per rabbia e disperazione, egli uccide la moglie, cerca di uccidere il figlio, dà fuoco alla tenuta e s'impicca. Il luogo dove Anguilla era nato arde e viene distrutto da un violento a causa della povertà. La casa della sua infanzia è bruciata dallo stesso falò del titolo che nei suoi mitici ricordi rappresentava un grande momento di festa e di gioia durante la sagra del paese Anguilla ora ha completamente perso le sue radici, non ha più nulla in comune con quel paese, è uno sradicato. Affida l'educazione di Cinto a Nuto (il Pavese-come-avrebbe-voluto-essere) perché vede in sé stesso un perdente, ed è bene invece che quel ragazzo impari a vivere. Ora Anguilla deve andarsene. Nell'ultima passeggiata prima della partenza, Nuto gli racconta la storia della morte di Santina, una delle tre figlie del padrone della Mora, la più piccola, che Anguilla ricorda tenera e dolce all'età di sei anni. Anguilla aveva già visto l'inizio della distruzione di quella famiglia (la morte delle sue due sorelle e la malattia del padre), ma Santina era rimasta per lui un simbolo della vitalità tipica dell'infanzia. Solo ora scopre in che modo era stata uccisa: giustiziata e poi bruciata dai partigiani come spia fascista, sempre dal falò, ora simbolo di morte. Questa ultima rivelazione conclude il romanzo.
Questo è il romanzo della disillusione. La perfetta armonia del ricordo mitico dell'infanzia si scontra con la disarmonia, l'ingiustizia e la crudeltà del mondo reale, della guerra e della storia. Il ricordo, promessa di un futuro, viene definitivamente relegato nel passato.
E questi terribili contrasti tra mito e storia, tra essere e ricordare portano Pavese ad una tragica decisione. Le sue ragioni le aveva già spiegate nei romanzi e soprattutto nel suo diario. Un giorno d'agosto, a pochi mesi dalla pubblicazione de "La luna e i falò", nella cornice di una camera d'albergo di Torino, Pavese pone fine alla sua esistenza. Di lui rimarrà un senso di solitudine e di disadattamento che permea le sue opere. Penultimo gesto, un biglietto: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi", un disperato e ironico estremo addio.
Ultimo gesto, poi il Nulla. Il silenzio. La pace.
Seconda versione

Cesare Pavese è stato uno degli scrittori più innovativi della prima metà del Novecento, grazie ad opere che andavano oltre la narrativa classica italiana e si ispiravano, invece, ai best- sellers d'oltreoceano e d'oltremanica. Nacque a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe piemontesi e lì trascorse tutta la sua infanzia. Frequentò, invece, il liceo classico a Torino e in quegli anni venne a conoscenza e aderì alle idee comunisti, molte pregnanti fra i docenti e gli studenti nel Liceo Dante Alighieri. Sotto il fascismo cominciò a pubblicare i suoi primi libri e fondò anche la casa editrice Einaudi. Nel 1935 venne mandato al confino perché aveva messo a disposizione il suo indirizzo per la corrispondenza tra comunisti. Il suo grande problema, allora, era il conflitto tra l'essere e il voler essere, perché non riusciva a vivere nella vita pratica le idee comuniste cui aveva aderito, come invece avrebbe voluto fare. Segno evidente di questa problematica è la mancata partecipazione alla lotta partigiana, infatti lui si nascose presso la sorella nelle Langhe. Ciò non lo aiutò certo ad essere ben visto dagli altri comunisti, intellettuali e non, che in qualche modo avevano sempre perorato la causa del partito nella vita pubblica. Inoltre Pavese non riusciva ad instaurare rapporti costruttivi con una donna e ciò, sommato ai problemi con i compagni, lo portava a vivere in solitudine. Comunque lui continuava la sua ricerca letteraria e nel 1950 viene pubblicato "La luna e i falò", che, a detta di molti, rappresenta la sua summa delle sue convinzioni in campo artistico e letterario, e, non da meno, il suo testamento, visto che si suicidò pochi mesi dopo la sua uscita. Il protagonista di questo romanzo-racconto è Anguilla, che rappresenta lo stesso Pavese, che ritorna dall'America alle colline delle Langhe, che lo avevano visto crescere e ritrova il suo vecchio amico Nuto, che rappresenta il prototipo dell'uomo che l'autore avrebbe voluto essere perché era un artigiano di stampo comunista e viveva nella vita di tutti i giorni le sue convinzioni. Anguilla comincia a rievocare la sua infanzia accompagnato dal suo vecchi amico e da Cinto, figlio del nuovo fattore della Gaminella, dove aveva vissuto i primi anni della sua esistenza. Nelle prime pagine del libro emerge forte il tema del mito legato all'infanzia, su cui Pavese aveva condotto alcuni studi, rifacendosi alla filosofia di Gian Battista Vico, il quale afferma che la che l'infanzia è l'età in cui si creano i miti. Proprio da quest'affermazione l'autore costruisce la propria idea di mito, che considera un fatto avvenuto una volta per tutte e perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo perché esso è avvenuto durante l'infanzia, età privilegiata in cui lo si vive inconsapevolmente; quando ci si rende conto di ciò, essa è già passata. Pavese è convinto che la vita ci sradichi dai luoghi e dai miti dell'infanzia, da ciò inevitabilmente deriva la solitudine e la voglia di tornare, alimentata dalla rievocazione costante del mito. La solitudine è un tema esistenziale molto forte in Pavese, che non riesce adattarsi fino in fondo all'ambiente cittadino e politico che lo circonda. La stessa sensazione di desolazione (cap. XI) provata nell'enorme distesa dell'America porta Anguilla a ricercare le Langhe negli States stessi e non trovandole lo spinge a ritornare. Tornato sulla Gaminella assieme a Cinto rievoca il passato, spiegandogli cosa fosse cambiato rispetto alla sua infanzia, certo le piante, gli alberi, i campi non erano più gli stessi ma l'ambiente era sempre lo stesso, accogliente come una madre (pag. 27-28). Questo ritorno al mito, che assume un carattere quasi magico, va a scontrarsi con la rivelazione di Cinto che sulla riva del Belbo, dove Anguilla aveva passato tanti momenti della sua fanciullezza, era stato trovato morto un soldato, tutto scorticato. Questa immagine cruenta comincia a scalfire la forte armonia che rende il mito tale. Più Anguilla si addentra nel suo viaggio, un mix fra ricordi e presente, più l'armonia cui è associata il mito si andrà a scontrare con la realtà. I dolci ricordi della feste di paese con i falò sono profanati da altri falò, che non sono più quelli allegri delle feste paesane, ma sono segno di disperazione, dolore, guerra: il Valino, che da fuco alla sua fattoria in preda ad un raptus di follia, cancellando tutti i ricordi di Anguilla, che lì era cresciuto e che non aveva altri segni delle sue radici, perché era un trovatello; i falò della guerra, che nonostante fosse terminata, aveva lasciato una spaccatura all'interno della popolazione civile che durante la Resistenza si era schierata pro o contro il regime, lasciando uno strascico di zizzania fra la gente. Aberrante è l'episodio del parroco che quasi si rifiuta di celebrare il funerale di due giovani trovati morti solo perché aveva il vago sospetto che fossero comunisti. Ma il falò più tragico, rivelato alla fine del romanzo, è quello del corpo di Santina, una delle tre ragazze della Mora, uccisa e bruciata perché accusata dai partigiani di collaborazionismo con i fascisti. Santina è una delle tre ragazze della Mora, dove Anguilla ha passato la sua adolescenza, e il cui ricordo fa parte del patrimonio dei suoi miti: l'immagine di Irene, la sorella di Santina, bella e bionda ricorre in molti passi del libro, con tono inequivocabilmente nostalgico. Ebbene il protagonista alla fine scopre il matrimonio infelice della bella Irene, la morte di Silvia per un aborto ma soprattutto il rogo di Santina. È la fine del mito, ormai Anguilla scopre a sue spese che i suoi ricordi ormai non coincidono più con la realtà. Allora Anguilla preferisce andarsene, lasciare Cinto a Nuto, affinché lo educhi. È una atto di affetto disperato, per non permettere che il ragazzo debba affrontare le sue stesse problematiche: quando gran parte dei ricordi belli e vengono a mancare, non si resiste più alla solitudine e all'ostilità della realtà. La disperazione finale non detta ma sottintesa da un grande spazio bianco nell'ultima pagina è quella che prova Anguilla. È la stessa di Pavese che lo porta al suicidio tre mesi dopo al pubblicazione del libro.

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