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giovedì 5 marzo 2009

Tema svolto gratis Ispirazione ai Promessi Sposi

Secondo l'opinione del direttore dei musei manzoniani di Lecco

prof. Gianluigi Daccò, quando il Manzoni disse nel suo romanzo d'essersi ispirato a vicende storiche trovate nel manoscritto di un anonimo, diceva la verità, solo che il protagonista di quelle vicende era un suo trisavolo, di nome Giacomo Maria, vissuto nella zona di Lecco nella prima metà del Seicento. I documenti si trovano nell'archivio di famiglia dello scrittore.

Ecco la storia, che praticamente inizia verso il 1610. Lecco e la Valsassina erano le zone di massima produzione del ferro di tutto il Ducato Lombardo. Due importanti famiglie, i Manzoni di Lecco e Barzio (capeggiati appunto da Giacomo Maria) e gli Arrigoni di Introbio (capeggiati da Emilio), controllavano l'intero ciclo produttivo del ferro: dalle miniere e fonderie della Valsassina alle officine per produrre archibugi e palle da cannone. Avevano molti dipendenti, fortissimi mezzi economici e solidi agganci con le strutture politiche, amministrative e giudiziarie. Ognuna si avvaleva di una vera legione di "bravi", destinati a risolvere le trattative degli affari con le armi della minaccia, del sequestro di persona e persino del delitto. Le due famiglie si contendevano il controllo esclusivo dell'altoforno di Premana, una struttura in cui lavoravano 150 persone.

Nell'Archivio di Stato sono presenti gli atti di due lunghe e complesse vicende giudiziarie. Una riguarda il procedimento per omicidio contro Giacomo Maria, accusato di aver fatto assassinare un Arrigoni, per una questione di donne. Nell'altra l'imputato è sempre Giacomo Maria, ma l'accusa questa volta degli Arrigoni è quella di essere un untore, cioè di aver mandato in giro dei monatti a ungere persone o cose con materiale infetto, per distruggere la famiglia degli Arrigoni (la peste a Milano e a Lecco era scoppiata nel 1630). · Fu il Senato di Milano che, preoccupato del diffondersi della peste, incaricò il giureconsulto Marco Antonio Bossi di condurre una dettagliata indagine. Tre monatti furono arrestati e, sottoposti a tortura, confessarono chi era il mandante. Al termine del lungo processo essi furono condannati e giustiziati, ma Giacomo Maria, grazie alle sue protezioni, riuscì a cavarsela. Il tribunale aveva deciso un supplemento di indagini dalle quali poi risultò ch'egli era stato vittima della rivalità degli Arrigoni. I quali però non si arresero e nel 1640 riuscirono finalmente a spuntarla sul Manzoni.

Ora le analogie col romanzo sono molto evidenti:

* quasi tutti i fatti narrati sono gli stessi;
* i luoghi sono gli stessi;
* simili i protagonisti delle vicende e i personaggi comprimari;
* identico il periodo storico;
* le analogie spiccano soprattutto con la prima stesura del romanzo e con la Storia della colonna infame;
* l'avvocato difensore di Giacomo Maria, descrivendo Emilio Arrigoni, usa delle frasi che sono le stesse che Manzoni adopera per descrivere il Conte del Sagrato in Fermo e Lucia;
* il comportamento di Giacomo Maria è identico a quello di Don Rodrigo;
* i racconti della peste si assomigliano;
* la descrizione di come viene decisa la sentenza di condanna a morte per Giacomo Mora nella Colonna infame è identica a quella che dà il Bossi nel suo memoriale per la sentenza dei tre monatti.

Tema svolto gratis Introduzione dei Promessi Sposi

Alessandro Manzoni inizia a scrivere I Promessi Sposi il

24 aprile 1821, mentre si trova con la famiglia nella bella villa di Brusuglio, immersa nella campagna, a pochi chilometri da Milano. Sono tempi difficili: in città la polizia austriaca sta arrestando, uno a uno, i patrioti affiliati alla società segreta della Carboneria. L'anno prima è stato arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in corso i processi nei quali sono anche implicati i collaboratori del Conciliatore, tra cui il direttore del giornale, Silvio Pellico (1789-1854).
Molti di loro sono amici e conoscenti di Manzoni che spera, nel suo rifugio, di non essere coinvolto né chiamato a subire estenuanti interrogatori.
Ha con sé alcuni libri: le Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-1643) e il saggio di Melchiorre Gioia (1767-1829) Sul commercio di commestibili e caro prezzo del vitto, dove legge il passo di una grida (legge emanata dal Governatore di Milano, chiamata così perché veniva gridata nelle strade da pubblici ufficiali, al fine di informare i cittadini, spesso analfabeti) del Seicento, che commina pene severe a chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.
Nell'arco di quaranta giorni Manzoni stende di getto l'introduzione e i primi due capitoli del romanzo che, in realtà, sta enucleando nella mente da alcuni anni e che rappresenta una vera e propria sfida, per la sua novità formale e di contenuto. Ricostruire il processo di ideazione, stesura e revisione di questo capolavoro significa aprire anche uno spaccato sulla vita culturale dell'Ottocento e calarsi in quell'affascinante fase della cultura italiana che segue e sorregge le prime fasi del processo di unificazione nazionale.

Tema svolto gratis L'illuminismo in Italia

Il tardo Settecento è un momento particolarmente

felice per la vita culturale di Milano: la Lombardia, infatti, è passata nel 1713, con il trattato di Utrecht, sotto il controllo dell'Austria, liberandosi dal malgoverno spagnolo. Sovrani aperti alle riforme, come Maria Teresa e suo figlio, Giuseppe II d'Asburgo, introducono innovazioni che danno, nel decennio 1770-80, i primi risultati positivi. Ricordiamo in particolare l'istituzione del Catasto geometrico della proprietà fondiaria che pone la proprietà terriera su basi sicure, regola il gettito fiscale, accorda facilitazioni agli agricoltori più intraprendenti, senza danneggiare l'aristocrazia, che poggia la sua ricchezza sul razionale sfruttamento della fertile pianura Padana.
Gli intellettuali, per lo più di estrazione nobiliare o alto-borghese, sono chiamati a collaborare: ricevono incarichi di responsabilità e a volte sono accreditati consulenti per migliorare la legislazione e controllare l'opportunità di scelte fondamentali, in ambito monetario o nei rapporti commerciali.
Pietro Verri (1728-1797) è un esempio convincente di questa figura di intellettuale calato nella vita civile: chiamato a far parte nel 1770 della Giunta per la riforma fiscale, ottiene l'abolizione degli appalti privati nella riscossione delle imposte. Come presidente del Magistrato camerale (l'equivalente della direzione finanziaria), si sforza di riorganizzare meglio l'apparato fiscale. Intanto si diffondono in Europa nuove idee che egli enuclea nelle Meditazioni sull'economia politica (1771).
Il movimento culturale dell'Illuminismo (così chiamato perché gli intellettuali confidano unicamente nel lume della Ragione) nasce in Inghilterra e si sviluppa rapidamente in Francia, Italia e nel resto dell'Europa. Gli illuministi esaltano una cultura operativa, che propugna lo sviluppo della scienza e delle tecniche. Ricordiamo che l'opera più significativa di questo movimento, l'Enciclopedia (in 17 volumi pubblicati tra il 1751 e il 1772, più altri volumi successivi di tavole), riceve dai suoi ideatori e organizzatori, Denis Diderot (1713-1784) e Jean Baptiste d'Alembert (1717-1783), un significativo sottotitolo: Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, da parte di un'associazione di letterati. Ad essa collaborano, con articoli e interventi sulle varie voci, i nomi più prestigiosi della Francia del tempo: Voltaire (1694-1778), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Charles de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), Étienne de Condillac (1715-80), Paul-Henry D'Holbach (1723-89), il naturalista George-Louis Buffon (1707-88), gli economisti Robert Turgot (1727-81) e François Quesnay ( 1694-1774).
Si diffondono i giornali, sul modello dello Spectator (1711) dell'inglese John Addinson, strumento di informazione destinato al largo pubblico, e dello spregiudicato Tatler ("Il Chiacchierone") di Richard Steele.
A Milano questa cultura, proiettata verso il progresso, attenta ai problemi concreti dell'uomo, pronta a intervenire nella gestione del pubblico interesse, trova attenti interlocutori. Nasce, così la Società dei Pugni e un periodico, Il Caffè, edito dal giugno 1744 al maggio1766. Si distinguono, per impegno e numero di interventi, i fratelli Pietro e Alessandro Verri (1741-1816), ma il collaboratore più prestigioso è Cesare Beccaria (1738-1794), l'autore di un vero e proprio best-seller, il trattato Dei delitti e delle pene (1764) in cui dimostra l'inefficacia della pena di morte e delle torture nella prevenzione dei delitti.

Tema svolto gratis La creazione dei Promessi Sposi

Manzoni idea I Promessi Sposi leggendo

una grida del Seicento, riportata da Melchiorre Gioia. È la stessa trascritta nel terzo capitolo del romanzo, circa le pene a cui va incontro chi impedisca la celebrazione di un matrimonio. "Sai che cos'è stato che mi diede l'idea di fare I Promessi Sposi? È stata quella grida che mi venne sotto gli occhi per combinazione, e che faccio leggere, appunto, dal dottor Azzecca-garbugli a Renzo dove si trovano, tra l'altro, quelle penali contro chi minaccia un parroco perché non faccia un matrimonio. E pensai, questo sarebbe un buon soggetto per farne un romanzo (un matrimonio contrastato), e per finale grandioso la peste che aggiusta ogni cosa!", scriverà il Manzoni, anni dopo, al figliastro Stefano Stampa.
Sono anni di lavoro intenso. Così Pietro Citati lo immagina intento nel suo sforzo creativo: "Fu il periodo più felice della sua vita: l'unico, forse, felice ch'egli conobbe... Era incuriosito e divertito da quello che raccontava, e per la prima volta scoprì la gioia di proporre avventure, di sciogliere intrighi, di giocare con i fatti... persino la nevrosi e gli incubi sembrarono allentare per qualche tempo la loro presa sopra di lui".
Come arriva al romanzo? Quali sono le urgenze interiori che lo avvicinano a questo tipo di produzione, pressoché assente in Italia, considerata anzi con una sorta di sufficienza dagli intellettuali, perché orientato verso un pubblico borghese di non "addetti ai lavori"?
In realtà Manzoni capisce che né la lirica civile né il teatro soddisfano quel bisogno di comunicare "ad ampio raggio" che è una sua aspirazione profonda. Anzi, i personaggi del teatro si trasformano quasi in simboli, si innalzano in una sfera astratta che coinvolge la meditazione esistenziale: Adelchi è un eroe, chiuso nel cerchio sublime del suo pessimismo. Quanti lettori possono riconoscersi in lui, pur condividendone, i princìpi e le aspirazioni?
Il romanzo, invece, si presenta al largo pubblico con un linguaggio più semplice, una narrazione avvincente, personaggi verosimili per le loro umanissime reazioni. Il genere del romanzo è l'immagine letteraria della classe borghese che rappresenta un pubblico non d'élite e tuttavia desideroso di letture.
Grazie a Fauriel, durante il secondo soggiorno parigino, Manzoni ha conosciuto le opere dello scozzese Walter Scott: con lui si parla di romanzo storico perché le vicende sentimentali dei protagonisti sono calate in periodi storicamente ben definiti e per lo più nel Medioevo, ricostruito con una certa attendibilità. Ivanhoe è, all'interno della feconda vena narrativa dello Scott, il romanzo più celebre, pubblicato nel 1820. Come si può notare facilmente leggendolo, Ivanhoe è impostato sulla contrapposizione di buoni perseguitati e di cattivi persecutori, i quali troveranno il giusto castigo. L'amore, a lungo mortificato e quasi annullato dalla prepotenza dei "cattivi", alla fine si risolve in nozze benedette. Alessandro Manzoni comprende le enormi potenzialità letterarie contenute nel romanzo. In Italia questo esperimento non è ancora compiuto. Circola solamente il romanzo epistolare di Ugo Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1817), dal carattere parzialmente autobiografico, dove al tema dell'amore si unisce quello della patria asservita allo straniero. Jacopo, deluso nelle speranze di sposare l'amata e deluso perché con il trattato di Campoformio del 1797 la Repubblica di Venezia è caduta in mano agli Austriaci, si uccide.

Tema svolto gratis La giustizia nei Promessi Sposi

"I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo,

fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi" ("I Promessi Sposi" capitolo II). Il Manzoni, con tono dolente e pacato, per guidare ad una riflessione morale i suoi lettori (per giunta valida per ogni tempo e non solo per il secolo XVII) si serve della storia, reale e immaginaria, per chiarire quanto ognuno di noi sia responsabile con le proprie azioni anche degli altri. A voi il giudizio.

Sin dalle prime pagine de "I promessi sposi", il Manzoni ci presenta una società soverchiatrice, violenta, dove le questioni (come dice lo stesso don Abbondio, durante il colloquio con Renzo) non si discutono in termini di torto o di ragione, ma in termini di forza. I principali responsabili di questa drammatica situazione, sono, sempre secondo l'Autore, i vari signori e signorotti locali, i quali, disponendo di un'elevata influenza sulle istituzioni giudiziarie e protetti da piccoli eserciti personali di bravi, eludono con facilità le gride per far valere il proprio potere d'oppressione sulla popolazione. Il clima d'ingiustizia e di violenza è quindi determinato dall'ancora forte potere feudale, personificato nella figura di don Rodrigo, e dalla totale inefficacia dell'apparato giudiziario spagnolo, la cui organizzazione burocratica, lenta e macchinosa, non riesce a garantire ai cittadini la protezione necessaria. Così, l'unica "giustizia" rispettata è quella di don Rodrigo e di quelli che, come lui, dispongono della violenza come strumento di dominio. Ma non basta. Anche gli intellettuali, uomini di chiesa come no, sono asserviti alla causa del potere, e sono costretti ad accettarne le logiche di sfruttamento. Don Abbondio, l'Azzecca-garbugli, uomini comuni, persone di per sé innocue, lontane dal sangue e dalla violenza, divengono, insieme alla stessa cultura che possiedono, le vittime e gli strumenti dell'oppressione. Appare quindi chiaro, a questo punto, il senso delle parole del Manzoni: gli oppressori, non si limitano a esercitare la violenza sui deboli, ma coinvolgono nelle loro logiche anche uomini prima estranei al terribile sistema dell'"ingiustizia organizzata".
Oltre però agli intellettuali che diventano uno strumento nelle mani del potere, macchiandosi di delitto, le parole dell'Autore si riferiscono anche a un altro tipo di induzione alla violenza e all'odio: quella che i quotidiani episodi d'oppressione suscitano nella povera gente. Dalla base della piramide sociale, si vedono salire infatti, oltre alle lacrime dei deboli sfruttati, anche le loro parole di rabbia, di odio, di indignazione, di vendetta. Ed è a questo proposito che il Manzoni scrive la sua massima: "I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi". Infatti, dopo aver appreso la verità, e cioè che il suo matrimonio con Lucia è impedito dal volere di don Rodrigo, la prima reazione di Renzo è quella di progettare tremendi propositi di vendetta. Improvvisamente, la figura di Renzo si stravolge, e quel giovane "pacifico e alieno dal sangue" che era, si trasforma in un aspirante assassino. Avrebbe voglia di farla finita e, pur con i suoi scarsissimi mezzi, di affogare nel sangue la boria di don Rodrigo. Nella sua mente vorticano improvvisamente turpi progetti di morte: agguati, omicidi, vendette. La sua metamorfosi, veloce e drammatica quanto disperata, colpisce il lettore e lo spinge a riflettere sulle parole dell'autore. È il circolo vizioso dell'odio e della violenza (il forte opprime il debole che impara ad odiare a sua volta) che trasforma la storia umana, e non solo quella del Seicento, in una immensa carneficina, in una grande valle di rabbia e oppressione. Ma a questo punto interviene il tema della provvidenza divina, tanto caro al Manzoni, che fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male. Così come l'immagine di Lucia riporta la ragione nella mente di Renzo e lo riconduce sulla sua strada, così come la sua ferma fiducia in Dio e nella giustizia divina, riporteranno la luce nell'oscurità dei biechi pensieri di Renzo, la provvidenza promette al debole la redenzione e il riscatto dall'oppressione, a patto che sia lui, il primo a interrompere il circolo di sangue, non rispondendo alla violenza con altra violenza (nel Vangelo, Cristo stesso dice: "Se ti danno uno schiaffo, tu non rispondere, ma porgi l'altra guancia"). Lucia stessa griderà allarmata a Renzo, sentiti i suoi propositi: "No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?". In queste parole, il Manzoni ci lascia un profondo messaggio, la fiducia nella giustizia divina come unico mezzo di ribellione alle logiche della violenza che, in ogni minimo sopruso, alimentano lo spettro del male che aleggia su tutta la storia umana.

Tema svolto gratis La fortuna del Manzoni

La fortuna del Manzoni nelle pagine di critica

letteraria comincia già all'epoca della sua giovinezza, quando Vincenzo Monti e Ugo Foscolo apprezzano il poeta in erba. I Promessi Sposi riscuotono un grande successo e nell'arco di un anno sono stampate tredici edizioni, alcune delle quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far conoscere veramente l'opera del Manzoni in Italia è Francesco De Sanctis che dedica all'autore un intero corso nel 1877. Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue Carducci, che lo taccia di conformismo borghese, mentre il filosofo e critico Benedetto Croce afferma che il romanzo manzoniano non contiene poesia, ma è opera oratoria, Antonio Gramsci (1891-1937) accusa Manzoni di paternalismo nel suo atteggiamento verso gli umili, nel saggio Letteratura e vita nazionale (1950), conglobato nei Quaderni dal carcere (1972).
I prosecutori della ricerca di De Sanctis e di Croce sono, a tutt'oggi, gli interpreti più acuti dell'opera manzoniana. Attilio Momigliano, Luigi Russo e molti altri, cercano di evidenziare, accanto ai vari temi e al significato dei personaggi, l'unità poetica e il messaggio fondamentalmente umano dell'opera manzoniana. Michele Barbi progetta nel 1939 un'edizione nazionale delle opere del Manzoni e, negli anni Cinquanta, attua un'edizione critica delle tre redazioni del romanzo, per consentire ai critici utili esami comparativi. Gli studiosi più recenti (G. Petrocchi, L. Firpo, L. Caretti, G. Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D. Isella, E. Raimondi, M. Vitale, M. Corti, U. Eco) si sforzano di illustrare anche i rapporti fra Manzoni e la cultura italiana ed europea del suo tempo, valutando in quale misura essi siano filtrati attraverso l'opera letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni (1983), ha ricostruito, attraverso gli epistolari, il complesso e variegato "ambiente" manzoniano, costituito dai familiari, dagli amici e dai collaboratori.

Tema svolto gratis Fermo e Lucia

La prima stesura dei Promessi Sposi è molto diversa dall'edizione definitiva,

che vedrà la luce quasi vent'anni dopo, nel 1840. L'autore, nell'arco di due anni scrive il romanzo in quattro tomi, intitolandolo provvisoriamente Fermo e Lucia, dal nome dei protagonisti. La composizione inizia nel 1821 e termina nel 1823, con alcune interruzioni. Oltre ai romanzi che circolano in quegli anni e che vengono pubblicati intorno al 1820, come quello di Walter Scott, il Manzoni attinge alle cronache e alle opere di storiografia del Seicento. Ricordiamo: De peste Mediolani quae fuit anno MDCXXX (La peste che scoppiò a Milano nel 1630), e Historiae Patriae (Le storie della patria, in 23 libri) di Giuseppe Ripamonti (1573-1643), il Raguaglio di Alessandro Tadino (1580-1661), medico milanese che diagnosticò la peste e le sue cause, nonché le opere dell'economista Melchiorre Gioia, contemporaneo del Manzoni.
La novità che balza subito all'occhio è il fatto che sono protagonisti personaggi di origine umile e l'ambientazione è di tipo rurale. Niente cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e duelli all'ultimo sangue, ma solo situazioni che, trasposte in epoche diverse, potrebbero vedere coinvolto chiunque. Certo non mancano vicende eccezionali, come la peste, la guerra, il rapimento della protagonista, una clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le presenta con estrema verosimiglianza. Infatti crede nella necessità di rifondere, nel romanzo, il vero storico e l'invenzione poetica: lo scrittore pensa che la letteratura, per avere carattere educativo, non può rinunciare a proporsi come momento di conoscenza e stimolo alla riflessione. Perciò deve prospettare personaggi, vicende, situazioni, considerazioni, scene, dialoghi e soliloqui in cui il lettore si possa riconoscere.
Come mai la scelta degli umili come protagonisti? E perché proprio un romanzo storico? Sicuramente non è estranea la concezione cristiana del Manzoni e la sua opinione che la storia sia fatta dalla gente comune, dalla massa popolare, piuttosto che dalle élites al potere. Naturalmente si tratta di una narrazione, nella quale una vicenda d'amore è inserita in un contesto illustrato con precisione e sul quale l'autore si documenta con cura puntigliosa. A questo punto torniamo ancora una volta al felice binomio di verità e fantasia che dà al romanzo realismo e universalità.
Spieghiamoci meglio: l'ambientazione rigorosamente studiata e i tipi umani scelti dall'autore rimandano alla realtà. I protagonisti non sono creature eccezionali, ma gente semplice come se ne trova ovunque e in ogni epoca. I personaggi "storici", ossia quelli ricavati dalle cronache, sono riprodotti senza che mai siano falsate (o "romanzate") le fonti storiche, ma proprio questi personaggi acquistano una suggestione straordinaria quando l'autore cerca di illuminare la loro psicologia e immagina ciò che le cronache non possono dire, ossia il loro dramma interiore, il fastello di irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le riflessioni, i compromessi che li portano a scelte e decisioni sofferte. L'autore li ricostruisce dall'interno, inventa il processo spirituale che li ha resi quelli che tramandano gli storici. Per questa operazione letteraria deve fare appello alla sua arte poetica, alla sua sensibilità, e, perché no?, anche alla sua esperienza personale: chi potrebbe negare che, per ricostruire la faticosa conversione dell'innominato, Manzoni non abbia ripensato alla "sua" conversione?
Un'altra domanda: perché proprio il Seicento? Si può rispondere, ricordando il patriottismo profondo del Manzoni. Nel secolo della dominazione spagnola sul Milanese, egli ravvisa molte analogie con il suo tempo, in cui la Lombardia è sottomessa agli Austriaci e ancora compaiono prevaricazioni e violenze. Come a quei tempi gli umili erano in balìa delle forze politiche, così ora i diritti dei cittadini sono violati e le loro giuste esigenze di libertà sono soffocate. La vicenda è ambientata nel territorio del Ducato di Milano e dura per due anni, dal 1628 al 1630. Protagonisti sono due giovani borghigiani che non possono sposarsi perché il signorotto della zona si è incapricciato della promessa sposa. Dopo lunghe peripezie (i fidanzati devono separarsi ma si ritrovano, poi, in circostanze drammatiche) le nozze vengono celebrate.

Il romanzo non soddisfa affatto l'autore che lo dà in lettura agli amici Visconti e Fauriel. Quest'ultimo gli suggerisce alcuni tagli sostanziali, per modificare una struttura poco equilibrata, in alcune parti prolissa e fuorviante. A questo punto, però, l'autore comprende che non si tratta soltanto di scrivere una bella storia capitata in passato, di comporre un romanzo che sappia divertire e intrattenere il lettore: sente dentro di sé l'urgenza di trasmettere un messaggio universale e di dare alla sua opera quella funzione educativa, già obiettivo dei suoi capolavori precedenti. Occorre, quindi, guadagnare in sobrietà e chiarezza, dando ai personaggi quel carattere particolare che consente di farsi portavoce di un'esperienza di vita.
Nel 1825 i quattro volumi sono ridotti a tre, dall'intreccio più agile e organico. Nel 1827 ecco l'edizione (detta "ventisettana") dei Promessi Sposi - Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni: duemila copie sono esaurite nell'arco di due mesi. Già il titolo è notevolmente suggestivo: l'autore, infatti, si presenta nelle vesti di scopritore e rifacitore, nel milanese in uso ai suoi tempi, di un antico manoscritto secentesco, composto da un misterioso autore anonimo: non è un espediente molto originale, se pensiamo che già Ludovico Ariosto l'ha usato per l'Orlando furioso (1532) e Miguel de Cervantes se ne è servito per il Don Chisciotte (1605-16015).

Tema svolto gratis L'europa e il romanzo

Nell'Europa del primo Ottocento, invece,

il romanzo si è affermato pienamente da circa un secolo. Compare in Francia nel 1678 con la commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de La Fayette: ambientato a metà del Sedicesimo secolo, alla corte di Enrico II, è la storia di una passione tenuta a freno dal senso dell'onore e del dovere. Avventura e ricerca filosofica sono abbinate nel romanzo di Voltaire Candide(1759) in cui un giovane, dopo mille peripezie, sposa la sua amata, ormai vecchia e brutta, ma scopre anche il senso della vita.
Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le ricerche, gli incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla base, sta il meccanismo tipico dei romanzi d'avventura. D'altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo La nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema dell'amore contrastato dal senso del dovere, costruendo un modello insuperabile di eroina romantica nella figura di Giulia, figlia obbediente e moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo accostare quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle difficoltà a cui l'uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano in Robinson Crusoe (1719) dell'inglese Daniel Defoe, mentre il motivo dell'ingiustizia e della malvagità del nobile che si accanisce su un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di Henry Fielding.
Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto fine: l'intrigo viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta dose di ricompensa, proprio come nei Promessi Sposi, benché nel romanzo manzoniano esista una componente che manca in tutti gli altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto anticipare questa osservazione per evitare false interpretazioni. Nel Settecento, all'interno del filone "gotico", compaiono romanzi "neri", in cui gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli popolati da forze misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano potenze ultraterrene: è questo il contenuto del Castello di Otranto (1764) dell'inglese Horace Walpole, in cui emerge la figura della fanciulla che, a causa della persecuzione del nobile prevaricatore, non può sposare il giovane che ama. La monaca (1796) del francese Dénis Diderot, narra le peripezie di una giovane che entra in convento, forzata dalla famiglia: non possiamo non pensare alla celebre vicenda manzoniana della monaca di Monza, anche se la storia di questo personaggio è recuperata dalle cronache secentesche del Ripamonti. Il monaco (1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta il tipico esempio di romanzo gotico in cui orrore, erotismo, suspense e violenza si mescolano, avvincendo il lettore. Non dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e colpi di scena, e compaiono personaggi che potrebbero ben essere definiti "oppressori".
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-1842) suggerisce al Foscolo il tema dell'amore infelice nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis con il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), che racconta la storia di un amore impossibile per la bella Carlotta. Tuttavia nell'altro suo romanzo, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795) offre un valido spunto anche per Manzoni. L'analisi goethiana della formazione del giovane, infatti, non è estranea all'ideazione del personaggio di Renzo che, nel corso del romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare una personalità sicura.

Tema svolto gratis I personaggi dei Promessi Sposi

Renzo

Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.
Lucia

Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.
Agnese

Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.
Padre Cristoforo

Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.
Cardinal Federigo

All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.
Innominato

L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.
Don Rodrigo

Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.
Don Abbondio

Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.
Gertrude

La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.
Alcuni personaggi secondari

* Tonio: Tonio è un contadino amico di Renzo, che con il fratello Gervaso prende parte al tentativo del matrimonio a sorpresa. Tipo estroso, accetta con entusiasmo la proposta di Renzo perché sa che in cambio potrà ricevere l’estinzione del debito che aveva con Don Abbondio. Lui fa parte, assieme al fratello Gervaso, di quel mondo secondario, formato da umili e sventurati.
* Griso: Il Griso è il capo dei bravi di Don Rodrigo al quale venivano affidate le imprese + rischiose e malvagie; è infatti il Griso a doversi incaricare del rapimento di Lucia. Si dimostra abile nel travestimento e quindi nel far credere ad Agnese che era un mendicante con lo scopo di studiare i dettagli del piano. Tutti gli altri bravi agiscono ad ogni suo comando, possiamo intuire la sua natura malvagia non solo dalla missione affidatagli ma anche dal modo losco e a tratti inquietante in cui Manzoni ce lo presenta.
* Menico: Menico è un giovane ragazzo di circa 12 anni che per via di alcuni cugini e cognati risultava nipote di Agnese. È ingenuo, anche a causa della sua giovane età, tuttavia mostra una certa vivacità mista di allegria. Menico compie la missione affidatagli da Agnese grazie anche ai soldi offerti dalla donna.
* Oste: L’oste è un personaggio che viene presentato nel capitolo 7 del quale non abbiamo nessun tipo di descrizione fisica. È un uomo vile che per alcuni tratti assomiglia a Don Abbondi, lui infatti quando viene interrogato da Renzo per farsi spiegare chi fossero i loschi forestieri, risponde per ben due volte che non li conosce e inoltre che il suo mestiere non gli permette di raccontare i fatti dei suoi clienti. In seguito, interrogato dai bravi, indica loro Renzo, Tonio e Gervaso indicandogli inoltre il loro lavoro e i tratti del loro carattere. Non riesce ad uscire dal cerchi del suo interesse privato, è intrigante, birbone e malizioso. L’oste si avvicina cosi alla maggior parte degli uomini e si schiera con quelli che avevano l’aspetto da birbanti.

Tema svolto gratis Dal fermo ai Promessi Sposi

Che cosa è cambiato dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi?

Qualcosa di molto sostanziale. Non solo, infatti, i personaggi modificano il loro nome (Fermo Spolino diventa Renzo Tramaglino, filatore di seta, come ricorda il cognome; Lucia Zarella si chiama Lucia Mondella; fra Galdino, il cappuccino che protegge i fidanzati, assume il nome di padre Cristoforo; il Conte del Sagrato riceve la misteriosa denominazione dell'innominato, Marianna De Leyva diventa l'anonima monaca di Monza), ma sono introdotti tagli decisi alla narrazione. Le vicende dei due personaggi storici per eccellenza (perché sono il frutto di una pignola consultazione delle cronache del tempo), ossia l'innominato e la monaca di Monza, sono sfumate e ridotte. Di queste figure il lettore non conosce tutti gli antefatti, ma soltanto le notizie fondamentali: in compenso è approfondito lo scandaglio psicologico, a tutto vantaggio della poeticità e suggestione della loro personalità. Infatti la storia della fanciulla monacata per forza nel Fermo e Lucia è così vasta da costituire davvero "un romanzo nel romanzo", che spiazza il lettore e gli fa dimenticare il filo centrale della narrazione. Inoltre, subito dopo l'interminabile odissea della monaca, ecco apparire il tenebroso Conte del Sagrato, anche lui con una lunghissima biografia alle spalle, vero excursus in cui il lettore si immerge nel mondo violento dei sicari secenteschi. Però ne deriva un grosso inconveniente: quando, dopo pagine e pagine, ricompare il povero Fermo, che poi è il protagonista, sembra quasi un intruso piovuto non si sa da dove. A ciò si aggiunge, come osservano gli amici di Manzoni, che emerge un eccessivo compiacimento per gli aspetti truculenti, torbidi, violenti dei personaggi. Per esempio l'autore illustra con esagerato realismo l'agguato del Conte a un nemico sul sagrato della chiesa, oppure si dilunga nel descrivere l'assassinio di cui la monaca si rende complice tra le mura del convento.
Tacendo i torbidi retroscena della monaca e lasciando intuire solamente il passato dell'innominato, il romanzo acquista maggiore eleganza e omogeneità stilistica, mentre i personaggi risultano più misteriosi, interiormente ricchi, sfaccettati, verosimili e forti di una incredibile capacità di ricreare la suspense.
Solo don Rodrigo rimane immutato, anzi, risulta peggiore. Sembra che Manzoni voglia davvero fare di lui l'incarnazione del male di tutto un secolo. Nel Fermo e Lucia, infatti, egli è scosso da una vera passione per la ragazza e vive una tremenda crisi di gelosia nei confronti di Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce da un sentimento che potrebbe, se non giustificarla, renderla umanamente comprensibile. Nella redazione successiva, invece, gli ostacoli che frappone alle nozze nascono da una futile scommessa stipulata con il cugino Attilio, superficiale e prepotente come lui.
Alcune scene ad effetto, come la morte di don Rodrigo, che impazzisce per il contagio della peste e si getta in una furibonda cavalcata nel lazzaretto, vengono riequilibrate, smorzate nella suspense, a tutto vantaggio dell'armonia della narrazione.
Anche dal punto di vista strutturale I Promessi Sposi risultano in parte modificati, con lo spostamento di alcuni blocchi narrativi: i due episodi della monaca di Monza e dell'innominato vengono distanziati con l'inserimento delle avventure di Renzo nei tumulti di Milano.
Nell'edizione del Ventisette il Manzoni attua anche tagli decisi nelle parti più specificatamente metodologiche e storiografiche: abolisce la dissertazione sul problema della lingua del romanzo e toglie tutta la documentazione dei processi agli untori (presunti responsabili della diffusione della peste a Milano) che ha rinvenuto negli atti riportati dalle cronache milanesi. Questa documentazione, peraltro di grande interesse, verrà enucleata e rielaborata nella Storia della colonna infame, pubblicata nel 1842 in appendice all'ultima e definitiva edizione del romanzo.
Non mancano, infine, le aggiunte: poche, ma utili per infondere al romanzo quel tono di realismo, arricchito da un umorismo sottile che tempera la drammaticità di alcuni episodi. Per esempio l'autore inventa il soliloquio di Renzo che, in fuga verso Bergamo, sta cercando un facile guado dell'Adda. È un capolavoro di introspezione psicologica: chi non ha mai parlato da solo, in maniera concitata e aggressiva, quando ha rimuginato fra sé un torto subito?
Uno dei primi entusiasti recensori del romanzo è Wolfgang Goethe, ma seguono rapidamente giudizi molto positivi di scrittori francesi come Stendhal (1783-1842), Alphonse de Lamartine e di autori che languiscono nelle carceri austriache, come Silvio Pellico ("quanto consola il vedere in Manzoni il cristiano senza pusillanimità, senza servilità, senza transazioni co' pregiudizi dell'ignoranza", scrive dallo Spielberg nel 1829).
Gli anni compresi tra il 1827 e il 1840 sono dedicati a una attenta revisione linguistica dell'opera. L'autore è da tempo interessato alla questione della lingua , che in Italia è dibattuta sin dal XIII secolo: se ne occupa Dante Alighieri (1265-1321) nel De vulgari eloquentia, se ne occupano importanti trattatisti del Cinquecento. Infatti gli Italiani, divisi politicamente, si sentono uniti nella cultura e nell'Ottocento aspirano a una lingua letteraria che sia nazionale. La tradizione addita nel fiorentino l'idioma più raffinato della penisola.
Perciò il Manzoni, che vuole fare del suo romanzo un'opera italiana, e non lombarda, mobilita la famiglia, per trasferirsi a Firenze qualche tempo. Ha bisogno di "orecchiare" il toscano parlato dalle classi colte, per frequenti e determinanti correzioni al linguaggio della narrazione.

mercoledì 4 marzo 2009

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 38

È la stagione dei ritorni: primo a giungere in paese è stato Renzo;

da Pasturo torna Agnese, ora torna anche Lucia accompagnata dalla mercantessa, compagna di capanna dentro il lazzaretto. Grande è la gioia generale. La famiglia Tramaglino ora può costituirsi. E per prendere accordi Renzo si reca da don Abbondio: ritiene di dover trovare porte spalancate ma non ha fatto i conti con la paura del curato che, finché ritiene o induce che don Rodrigo è ancora vivo, sente incombere la minaccia di cui si erano fatti messaggeri i due bravi da lui incontrati durante la passeggiata pomeridiana. Don Abbondio ha ancora delle obiezioni da fare, delle difficoltà da frapporre. Dice che esita per il bene di Renzo. A sciogliere il nodo giunge al castello-palazzotto di don Rodrigo il marchese che ne è l'erede. Il signorotto è morto. Don Abbondio è come liberato; diventa cordiale, generoso, scherza: un grosso peso gli si è tolto dal petto. Il nuovo proprietario dei beni che furono di don Rodrigo è persona dolce, umana, vuol compensare in qualche misura i due promessi acquistando ad un prezzo da lui maggiorato i loro pochi beni. Finalmente si celebra il matrimonio e il marchese invita gli sposi a pranzo nel suo palazzo: lui si pone in una stanza con don Abbondio, in un'altra gli sposi. Buono sì, ma sempre marchese! Segue poi il viaggio nel nuovo paese, nel bergamasco, dove Renzo si trasforma in piccolo imprenditore. Ma il suo piacere è attenuato dall'amarezza che gli danno i nuovi compaesani che non trovano di loro gusto Lucia, fatta centro di tante avventure. L'avevano ritenuta una creatura magicamente bella: ed invece è una giovane donna come tante altre. A liberare Renzo dai disgusti c'è un secondo trasferimento in altro paese: dove insieme con Bortolo acquista una piccola filanda. Qui le cose migliorano sotto ogni aspetto. La famiglia è più unita e Renzo più sereno. I bambini che nascono sono la gioia di Agnese. Di tutta questa a volte tumultuosa vicenda quale il sugo? I due coniugi d'accordo conchiudono che i guai ci sono e non si possono evitare: solo la fiducia in Dio li addolcisce e li rende utili per una vita migliore.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 37

Renzo ha da poco varcato l'ingresso del lazzaretto,

che il tempo quasi sciogliendosi dalla gravezza da tempo imperante sulla città si risolve in un forte temporale. L'acqua veniva a secchie. Ma Renzo non si lascia frenare o distogliere: una nuova, fervida, alacre vita sembra essersi ridestata in lui e lo spinge infaticabile verso il proprio paese. Deve ordinare parecchie cose e deve ormai preparare tutto per l'arrivo di Lucia: allora si penserà al matrimonio. Cammina tutta notte e al mattino si trova in casa dell'amico che, quasi avvertendo anche lui la liberazione da un incubo, sorride al vedere Renzo ridotto così malamente. Lo fa mangiare e si fa raccontare per filo e per segno tutte le avventure degli ultimi giorni. Asciugato e riposato il giorno dopo Renzo si reca a Pasturo: vi trova Agnese e anche a lei racconta di Lucia e dello scioglimento del voto. Poi sempre a piedi ed incontenibile va a Bergamo per Bortolo e per cercare casa: sposato intende trasferirvisi. Infine torna al paese e vi trascorre alcuni giorni ora chiacchierando con Agnese ora lavorando il poderetto di lei. Renzo manifesta il proposito di vendere la sua vigna e la sua casa. Lucia, intanto, con la mercantessa ormai guarita, si trasferisce nella casa di questa. Da lei Lucia viene a sapere di Gertrude e della turpe vita che conduceva al monastero. Sa anche della morte dei suoi ospiti, donna Prassede e don Ferrante. Questi era morto come un eroe della scienza: si era convinto che la peste era dovuta ad un influsso, avverso, delle stelle e quindi non prese alcuna precauzione: un giorno si mise a letto e vi morì con un ultimo sguardo alle stelle, della cui dottrina aveva creduto di nutrirsi.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 36

Allontanatosi dal letto di morte di don Rodrigo,

con animo molto commosso, con la commozione che ci prende quando pressati dall'impressione dei morti o dei moribondi ci ripieghiamo a pensare a noi e al senso di tutta la vita, Renzo riprende lungo il lazzaretto la sua ricerca di Lucia: come cercare un ago in un pagliaio. Al centro, quasi punto di riferimento e di convergenza, la cappella a pianta centrale, con un portico che girando intorno lascia la vista dell'altare da qualunque posizione ci si volga verso di esso. intanto la processione dei guariti o avviati a guarigione, comincia a riunirsi intorno, guidata dal padre Felice, che si volge ai malati o convalescenti e li saluta prima che essi tornino alle loro case, alle solite occupazioni. Sono i sopravvissuti di una epidemia terribilmente devastatrice: con quali sentimenti i guariti guarderanno ora alla vita? Con la coscienza, dice padre Felice, che essi la vita ottenuta come dono dalla divinità l'impieghino in opere che siano alla stessa accette. Si aiutino tutti e si avvertano fratelli: la sofferenza conceda a tutti i salvati il senso della fugacità dell'esistenza con la congiunta consapevolezza che la legge del mondo dovrebbe essere quella dell'amore. Finita la processione, Renzo si avvia nei reparti riservati alle donne: quando sembra avviato a disperazione, postosi accanto ad una capanna ne sente venire una voce inconfondibile: quella di Lucia. L'ha ritrovata e con la solita generosa impetuosità vorrebbe che le cose tornassero come prima. Il voto, che ancora Lucia insiste di voler rispettare, a lui sembra il frutto di una mente turbata, quindi una cosa sconclusionata. Contro la recisa, fermissima opposizione di Lucia, non c'è altri che possa sciogliere la difficoltà, che padre Cristoforo. il quale, chiamato, ascolta da Lucia tutta la storia del voto, comprende che si tratta di gesto nobile ma viziato all'origine: era stato fatto senza tenere conto che lei s'era promessa a Renzo e in momenti di grande agitazione. Se lei consente, dal voto può essere sciolta. E così padre Cristoforo pronuncia la formula di scioglimento ed insieme dà ad ambedue un avvertimento ed un consiglio: possono tornare come promessi sposi ai pensieri di una volta ma si ricordino che la vita deve essere spesa nella ricerca del bene e che le sofferenze patite devono disporli ad un 'allegrezza raccolta e tranquilla. Così si congeda il frate, ormai con nel volto i segni della morte imminente. Lucia resta nella capanna ad assistere la mercantessa che le si è affezionata. Renzo decide dì partire subito e di andare alla ricerca di Agnese. il tempo che era prima afoso e nebbioso e percorso da rumori di tuoni, ora sembra voler precipitare in forma di burrasca

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 35

L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre

di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 34

Per entrare a Milano Renzo non incontra particolari difficoltà:

basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia. Se fuori di città ciò che intristisce la campagna, parte incolta e tutta arida, dentro la città impressionano il silenzio e i segni desolanti della peste, che come potenza distruttiva travolge ogni cosa lasciando dietro di sé cadaveri e cenci. Proposito principale di Renzo di pervenire alla casa di don Ferrante alla ricerca della sua Lucia. Non ha con sé che indicazioni generiche. Un passante, a cui con buona educazione chiede informazioni, lo allontana con mal garbo con gli occhi stralunati e imbracciando e minacciando con un nodoso bastone: lo aveva ritenuto un unto re. L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle invocazioni di una donna circondata dai suoi bambini e chiusa e sequestrata in casa dall'esterno: ritenendola portatrice di peste, gli amministratori l'avevano chiusa, come si fa per la quarantena e l'avevano dimenticata. Rischiava di morire di fame. Renzo le porge il poco pane di cui dispone: si incarica di avvertire qualcuno. Poco dopo incontra un prete che finisce di confessare un malato. A lui affida la donna e gli chiede informazioni sull'ubicazione della casa di don Ferrante. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene raccapriccianti di dolore e di morte: dovunque fetore di cadaveri, visioni di solitudine e di abbandono, serrati tutti gli usci di strada, per tutto cenci, e segni di un progressivo imbarbarimento delle menti e dei costumi. quando Renzo arriva in città, questa aveva per la peste perduto i due terzi della popolazione. Le strade erano deserte: i pochi che per necessità le percorrevano prendevano tutte le cautele per evitare il contagio e per scansare incontri con i favoleggiati untori. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati o dei cadaveri. Ad un monatto una povera madre consegna il corpo esanime di una sua figliola: l'adagia lei stessa nel carro raccomandando che la si lasci così. Poco dopo si affaccia ad un balcone con in braccio un 'altra bambina, anche lei segnata dalla peste. Vincendo la commozione Renzo si avvia verso la casa cercata: alla finestra si affaccia una donna che gli annuncia che Lucia non c'è, che è stata portata al lazzaretto. E nulla altro risponde a Renzo, che voleva notizie più precise e teneva indeciso la mano sul martello della porta: lo stringeva e lo storceva. Il gesto non sfugge ad una donna che passava, una sorta di strega che lo addita alla folla come untore. Preso in mezzo dalla piccola folla Renzo prima minaccia col coltello, poi salta su un carro di monatti che stava passando. I monatti lo prendono sotto la loro protezione: la folla si dissolve scaricando la propria rabbia impotente in gesti che minacciano ancora il presunto untore. Renzo su quel carro si trova ora dentro le forme più sconvolgenti e turpi della peste: e non sono solo i cadaveri buttati sui carri a dare l'impressione di qualcosa di infernale, ma anche i monatti che si abbandonano ad una sorta di sadico compiacimento per la molta gente che muore e cantano canzonacce e bevono e si danno a forme di diabolica orgia. Ad uno di loro Renzo appare un povero untorello, uno che certamente non può essere un unto re. Non ne possiede secondo il monatto i fieri requisiti. Ormai sono al lazzaretto: Renzo ringrazia e si congeda. Dentro il lazzaretto ciò che colpiva era la folla dei malati, sui quali la peste, anche se sopravvivevano, lasciava a volte segni spaventosi di degradazione. Il gruppo che più impressiona è quello degli alienati mentali, degli istupiditi. Una scena improvvisa è quella di un cavallo non domo con sulla groppa un cavaliere, un appestato impazzito: dietro corrono i monatti: tutto poi si ravvolge in un nuvolo di polvere.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 33

La peste la prende anche don Rodrigo:

se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 32

Le autorità politiche si svegliano e chiedono l'intervento del governatore

almeno le spese per i provvedimenti sanitari le sostenga lo Stato spagnolo. Il governatore risponde che non ci può fare nulla: lui è impegnato nella guerra in modi esclusivi. Ci pensi il vice governatore Ferrer. E questi con tutte le altre autorità non sa altro proporre che il ricorso al soprannaturale: si aspetta il miracolo. E perciò si fanno pressioni sul cardinale perché autorizzi e guidi una solenne processione. Il cardinale non vorrebbe, ma poi cede. La processione si svolge ampia e solenne per le strade principali della città: vi partecipano tutti i cittadini che ancora si reggono in piedi: i malati si attendono soluzione improvvisa e positiva del morbo. Ma il contagio favorito dall'ammassamento scatena in forme ancora più drammatiche la forza della peste: i malati aumentano in modo impressionante. Alla fine, di peste morranno i due terzi della popolazione. Più esposti alla morte furono i bambini, i vecchi, le donne. Nel lazzaretto è un via vai di malati che vi sono fatti affluire e di morti che vengono avviati alle fosse comuni. La città è attraversata da carri guidati dai monatti, incaricati della raccolta dei malati: si tratta di gente che ha avuto la peste e ne è immunizzata. Si abbandonano a ruberie, a violenze, a scene orgiastiche. La popolazione superstite vive nello stato d'animo di chi si vede costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivono nella paura: dappertutto si crede di vedere degli untori. E il livello intellettuale si abbassa a tal punto che perfino persone di alto sentire come il cardinale o il Tadino vi credono.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 32

Le autorità politiche si svegliano e chiedono l'intervento del governatore

almeno le spese per i provvedimenti sanitari le sostenga lo Stato spagnolo. Il governatore risponde che non ci può fare nulla: lui è impegnato nella guerra in modi esclusivi. Ci pensi il vice governatore Ferrer. E questi con tutte le altre autorità non sa altro proporre che il ricorso al soprannaturale: si aspetta il miracolo. E perciò si fanno pressioni sul cardinale perché autorizzi e guidi una solenne processione. Il cardinale non vorrebbe, ma poi cede. La processione si svolge ampia e solenne per le strade principali della città: vi partecipano tutti i cittadini che ancora si reggono in piedi: i malati si attendono soluzione improvvisa e positiva del morbo. Ma il contagio favorito dall'ammassamento scatena in forme ancora più drammatiche la forza della peste: i malati aumentano in modo impressionante. Alla fine, di peste morranno i due terzi della popolazione. Più esposti alla morte furono i bambini, i vecchi, le donne. Nel lazzaretto è un via vai di malati che vi sono fatti affluire e di morti che vengono avviati alle fosse comuni. La città è attraversata da carri guidati dai monatti, incaricati della raccolta dei malati: si tratta di gente che ha avuto la peste e ne è immunizzata. Si abbandonano a ruberie, a violenze, a scene orgiastiche. La popolazione superstite vive nello stato d'animo di chi si vede costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivono nella paura: dappertutto si crede di vedere degli untori. E il livello intellettuale si abbassa a tal punto che perfino persone di alto sentire come il cardinale o il Tadino vi credono.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 31

Si ritira l'esercito ma lascia dietro di sé oltre che le devastazioni

un segno negativo di paurosa potenza distruttiva: la peste che allora sembrava essere costantemente presente all'interno degli eserciti. Le prime vittime furono accertate nel territorio di Lecco. Un soldato italiano militante nell'esercito tedesco la porta a Milano. Primo ad accorgersene e a darne l'allarme alle autorità sollecitando interventi precisi e rapidi; fu il protofisico (una sorta di Ministro della Sanità) Ludovico Settala: ne aveva diretta esperienza essendo passato indenne per quella del 1576. La gente sembra mettersi la testa dentro la sabbia e non ci crede: si dice che si tratta di un 'epidemia di varia natura dovuta alla carestia e agli strapazzi provocati dall'invasione dei lanzi. C'è una sorta di fuga dalla realtà. Si ha tanta paura delle parole che, invece di peste, si parla di febbre pestilenziale. Il governatore Ambrogio Spinola (don Gonzalo era stato sostituito), occupato dalla guerra, risponde alle autorità che facessero loro. lui ha cose più importanti cui pensare. Si riapre il lazzaretto che si vede ogni giorno di più colmare di malati: la maggior parte dei quali muore. Il lazzaretto, data l'insipienza e l'inefficienza dei poteri politici, affidato alla direzione ed amministrazione dei padri cappuccini: questi si adoperano eroicamente per i malati, molti prendono la peste, i più di loro muoiono. Ma la peste non è solo un male di per sé, non semina soltanto sofferenze e morte: scompiglia la vita mentale della gente e l'avvia verso le credenze più folli, verso Pirrazionalità. Non trovando la vera causa dell'epidemia, la gente inventa e dà credito ad alcune motivazioni e cause infondate: si pensa e crede che in giro vadano degli untori che, spinti da ragioni politiche o da perverse tendenze assassine, spargano e imbrattino di cose unte le cose e i luoghi pubblici. Chi ne è toccato, si prende la peste. Si credette di averne trovati alcuni che sottoposti a tortura si dissero colpevoli: furono avviati a morte e là dove c'era la casa di uno, fu eretta una colonna col compito di ricordare alle generazioni seguenti l'infamia di così efferato gesto.
La peste nei Promessi Sposi

La peste scoppiata nel 1629 fu il culmine di una serie incredibile di avvenimenti assai poco piacevoli accaduti in quegli anni nel Ducato di Milano. Infatti precedentemente c'erano stati la carestia prima, la guerra di successione al trono del ducato di Mantova poi. E proprio la guerra è stata la causa di questa epidemia.
Infatti il ducato di Venezia aveva assoldato per vincere la guerra, e quindi allargare il dominio al regno di Mantova, un famoso esercito di mercenari, i Lanzichenecchi, soldati che godevano di una pessima fama, visto che dove passavano portavano distruzione, e, spesso e volentieri, gravi malattie. Bene, visto che i Lanzichenecchi provenivano dall' Austria, per arrivare a Mantova doverono passare da Milano, e ne approfittarono per depredarla; purtroppo vi lasciarono anche la peste. Questa tremenda malattia all' inizio non venne considerata da nessuno, ma quando cominciò a fare dei morti i cittadini cominciarono a chiedersi che cosa fosse. Alcuni già gridavano alla peste; il governatore, però, la classificò come una normale "febbre pestilenziale", quasi una cosa da niente.
Ma ormai la peste aveva attecchito tra i milanesi, aiutata dalle scarse condizioni igieniche e dalla carestia. Morivano così moltissime persone, e finalmente ci si decise a prendere delle precauzioni. Le città ancora non infettate venivano isolate e nessuno veniva fatto entrare, ma nella ormai contagiata Milano la situazione era drastica.
Infatti non c'è era medicina per la peste: se ci si incappava in mezzo, o si guariva o si moriva. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, ci si rimaneva secchi. La peste, poi è assai contagiosa, e la si può prendere anche solo toccando i vestiti di un malato, quindi dilaga esattamente come un incendio nel sottobosco. E così fu per Milano. La Chiesa, per attenuarla, fece delle lunghe processioni e riti, che però ebbero effetto contrario a quello previsto: infatti, radunando tutta quella gente, contagiata e non, si allargò l'epidemia, e Milano fu in preda alla peste.
Vennero così istituiti degli ospedali, i lazzaretti, dove si tentava di curare i malati terminali, un corpo speciale di immuni alla peste detti "monatti", che venivano pagati per portar via i corpi dalle case e seppellirli in fosse comuni.
Costoro, però, spesso si approfittavano della loro autorità, e derubavano le case dei morti. Per questo motivo erano visti male dai cittadini. Poi c'era in giro la diceria degli untori, persone che ungevano con olio infetto i portoni delle case dei cittadini, contagiandoli. Per questo motivo vennero uccisi molti innocenti, che, comportandosi in modo strano o chiedendo cose particolari venivano presi come untori e uccisi.
La popolazione di Milano mentre era in preda a questa confusione, venne decimata. Per fortuna, dopo qualche mese, la peste se ne andò così come era venuta.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 30

Il tempo che trascorre in sicurezza nel castello,

don Abbondio se lo rovina per la paura che lo assedia e lo perseguita: dovunque vede minacce alla sua salvezza. Se non può per prudenza parlare e lamentarsi cogli altri, si sfoga con Perpetua e con Agnese che un po' lo sopportano, un po' lo rimproverano. Non gli manca nulla: l'Innominato lo rispetta. Ma lui ha bisogno di lamentarsi contro le due pettegole che l'hanno trascinato a tanto rischio. Gli sembra di essere tra due fuochi, dato che si è diffusa la voce che anche le truppe veneziane fanno delle scorri bande non meno devastatrici di quelle dei lanzi. Agnese e Perpetua trascorrevano il tempo lavorando per la comunità. Intanto veniva sfilando il grande corteo delle truppe tedesche in marcia verso Mantova. Ultime a passare furono le truppe di Galasso. Torna la sicurezza, e la gente torna alle proprie case. L'ultimo a partire, quasi strappato dal castello che ora gli dava tanta sicurezza, è don Abbondio con le due donne. Ad Agnese l'Innominato regala un mucchietto di scudi. Man mano si avvicinano al proprio paese trovano tutto segnato dalla furia dei soldati. A casa tutto messo a soqquadro, tutto insudiciato, il gruzzolo nascosto è scomparso. E questo fatto dà motivo di nuovo contrasto tra il curato e Perpetua.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 29

All'arrivo devastatore dell'esercito dei lanzichenecchi,

alleato degli Spagnoli politicamente e militarmente, ma autentica bufera per la popolazione esposta al saccheggio impunito e a ogni forma di violenza, anche la gente del paese di don Abbondio scappa verso territori ritenuti più sicuri. Deve fuggire anche lui: e Perpetua lo sollecita ad uscire dal torpore e a dare una mano d'aiuto, invece che a riempire la casa di lamenti improduttivi e a dipingersi come da tutti abbandonato. Agnese suggerisce un rifugio sicuro: il castello dell'Innominato. Prima di partire Perpetua ha sepolto sotto un albero le poche ricchezze della casa: si ritiene furba anche lei. Al solito non è d'accordo con il suo gesto don Abbondio. In viaggio si fermano a fare visita al sarto e alla sua famiglia: ne vengono accolti con molta festa. Li accoglie con signorile gentilezza anche l'Innominato. Il quale ha predisposto il castello a difesa contro i lanzichenecchi. non dovrebbero passarci se non gruppi di sbandati o di ritardatari. Nel castello c'è molta gente e questo fatto preoccupa don Abbondio che in questo fatto vede come un invito ai lanzichenecchi. Lo preoccupa anche il fatto che I 'Innominato si metta disarmato a capo dei suoi ex bravi e vada a sconfiggere un gruppo di lanzichenecchi che si era troppo avvicinato al castello. Ma quella che domina dappertutto qui è la figura dell'Innominato ormai convertito e interamente volto ad imprese in difesa dei deboli e di lotta all'ingiustizia. Tutti coloro che ora, spinti dalle forze tedesche, si rifugiavano da lui lo ammiravano e lo guardavano estatici. Lui non stava mai fermo: dentro e fuori del castello era sempre in moto a vedere, a farsi vedere, a mettere ordine e a sorvegliare e a dare coraggio.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 28

Per tutto l'anno 1629 fino all'autunno la situazione politica generale

non subì particolari modificazioni. Dopo il tumulto di S. Martino l'abbondanza sembrò tornata a Milano. Ma fu questione di pochi giorni: tornò il calmiere del pane con un prezzo più alto in rapporto alla rarefazione del grano. La poca farina che doveva essere amministrata con provvedimenti di equa distribuzione fu sprecata e lo Stato non seppe importare dall'estero grano a sufficienza. Si era creduto che con l'impiccagione di quattro uomini ritenuti responsabili del tumulto le cose trovassero sistemazione. Invece le cose peggiorarono: ma non ci fu tumulto, quasi la gente istintivamente avvertisse la impossibilità di radicali miglioramenti e di trasformazioni. La fame fiaccò anche i più generosi. La carestia temuta durante i mesi autunnali ed invernali si presentò con il suo volto devastatore. Dappertutto botteghe chiuse, le strade un corso incessante di miserie, accattoni sempre più numerosi, potenziati dai molti disoccupati, sempre più numerosi coloro che, vestiti di cenci, smagriti, emaciati, a volte incapaci di reggersi in piedi, chiedevano l'elemosina. Anche gente che era stata bene e aveva goduto di un certo agio ora sembrava schiacciata dalla fame. L'aspetto più doloroso era offerto dalla gente di campagna che la fame aveva cacciato di casa: ora accovacciati alle cantonate o in lunghe processioni i contadini provavano l'impossibilità per la città di provvedere a loro. Sempre più numerosi si fecero i morti. Pochi gli aiuti da parte delle anime più attente e generose. Eroica l'azione del cardinale che incarica giovani ed attivi preti a dare assistenza ai più colpiti. Ma si tratta sempre di toppe. Ci voleva l'azione dello Stato che, invece, fu del tutto assente o inadeguata. Contro il parere del Tribunale della Sanità che temeva dall'ammassamento in brevi spazi lo scoppio di un 'epidemia, si decise di aprire il Lazzaretto. Lì la gente trovava un minimo di assistenza alimentare: vi furono condotti a forza anche quelli che si opponevano al ricovero. Ma la morte per contagio assunse proporzioni rilevanti: di qui la decisione di rimandare fuori gli affamati. Finalmente giunse la primavera e qualcosa si cominciò a trovare.
Ma un'altra e durissima batosta si abbatté sulla popolazione. Dato che gli Spagnoli non riuscivano ad aver ragione dei Gonzaga di Mantova, l'Impero germanico alleato della Spagna mandò un corpo di spedizione di mercenari feroci, che attraversavano i territori anche degli amici e degli alleati con la stessa efficacia distruttiva delle cavallette. All'arrivo dei lanzichenecchi la gente della fascia territoriale investita dal loro passaggio scappò di casa cercando riparo verso le montagne. E le sofferenze non erano finite.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 27

La guerra per la successione del ducato di Mantova,

che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 26

Don Abbondio non trova argomenti da opporre alle incalzanti

e sempre religiosamente concrete domande del cardinale. C'è un'altra accusa contro di lui: quella di non avere sposato i due promessi ricorrendo a pretesti. È tutto vero e lui, il curato, dentro di sé non ha altro da dire che mandare qualche parola di condanna alle donne che non hanno saputo frenare la loro lingua. Ma insomma, conclude il curato, cosa avrei potuto fare in una situazione come quella? Prima, risponde il cardinale, doveva fare il suo dovere e sposarli, poi avrebbe potuto chiedere l'intervento del suo vescovo (la stessa cosa che aveva a lui suggerito Perpetua). Ma Federigo non vuol fare l'inquisitore: ha capito di quale stoffa sia il curato e pur non perdonando lo comprende e lo conforta a sperare e lo esorta alla resistenza in nome dei grandi valori della religione: la vita nostra deve essere misurata e valutata non sullo sfondo delle cose terrene ma di quelle eterne dell'aldilà. Dall'Innominato intanto giunge al cardinale una lettera con cento scudi: dovranno servire per la dote di Lucia. Ma questa, messa alle strette, ora rivela alla madre il voto: la esorta alla pazienza e a mandare la metà della somma a Renzo. Del quale Renzo nello Stato di Milano nessuno sa nulla: neanche il cardinale riesce ad avere notizie precise. Il fatto si è che la polizia dì Milano aveva incaricato quella di Venezia di fare ricerca del noto delinquente. Renzo, avvertito, aveva per suggerimento del cugino Bortolo cambiato residenza e cognome: si faceva chiamare Antonio Rivolta.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 25

Don Rodrigo non aveva ancora interamente gustata la gioia del trasferimento

di padre Cristoforo che su di lui si abbatte la notizia della conversione dell'Innominato e della conseguente liberazione di Lucia. La gente presto ricostruisce la trafila che conduce a lui: nulla altro può fare che scappare a Milano, inseguito dalla vergogna dell'insuccesso. Si allontana dal paese la sua ombra minacciosa e vi approda in visita il cardinale, sempre festosamente accolte, tanto più perché nel miracolo da lui compiuto vi è implicata una loro paesana. L'unico uggioso in tanta festa è don Abbondio, che fa i doveri di ospite in modo inappuntabile. Però è sull'attenti; il cardinale sarà stato informato da qualcuno sulle sue responsabilità nella vicenda dei due promessi? Sembra dall'atteggiamento del cardinale di poter dedurre che nulla egli sappia. L'attenzione del vescovo ora si sposta verso Lucia: è affidata alle cure e alla protezione di certa donna Prassede, donna di consistente ricchezza e potenza, che si offre di fare del bene alla giovine. Il cardinale dà il suo assenso. E così Lucia qualche tempo dopo, deve spostarsi ancora una volta: stavolta starà in casa di donna Prassede. Le cose si schiariscono per Lucia che ancora nulla dice alla madre del voto fatto alla Madonna. Ma la tempesta si addensa sul capo di don Abbondio. Il cardinale ha saputo e al curato in un colloquio chiede conto del suo operato. Ma al curato sembra che le cose non potessero andare diversamente: egli era stato minacciato di morte da don Rodrigo e questa era per lui ragione più che mai persuasiva ad indurlo in stato di necessità. Il cardinale oppone che dovere di ogni sacerdote è di affrontare anche la morte per l'attuazione del proprio ideale. Ma don Abbondio oppone che le cose potevano andare nel verso del cardinale, solo se non si doveva fare conto alcuno della vita. Ma cosa ci si può guadagnare a fare il bravo contro gente che ha la forza e che non vuoi sentir ragioni? Ma allora, aggiunge il cardinale, dimenticate di esservi impegnato in un ministero che vi impone di stare in guerra con gli interessi dei potenti, dei peccatori? E per difendere i poveri, i diseredati, i parrocchiani che erano sotto la vostra custodia cosa avete fatto? Li avete amati fino al sacrificio o li avete abbandonati al potente, all'ingiusto, al sopraffattore?
Approfondimento su Donna Prassede

Alla coppia sarto-buona donna che ospita Lucia reduce dal castello dell'Innominato subentra nel racconto, che continua a svolgersi intorno a Lucia, un'altra coppia che, a differenza della prima, di modesta condizione sociale, appartiene alla nobiltà; come dicono i nomi - Prassede e Ferrante - devono essere di quei nobili venuti a Milano dalla Spagna e che, come avevano in mano il potere politico, così si arrogavano il titolo di modello di comportamento e di moralità. E qualcosa di questo atteggiamento spagnolesco affiora in donna Prassede che si propone come donna che sa quello che è il bene, quello che gli altri devono fare, così si arroga, in un mondo di devianza, il compito missionario di raddrizzare le storture. Tra le due coppie le affinità sono poche e si riducono ai due mariti che praticano coi libri, in modo dilettantesco il sarto, in modo professionale e robusto il nobile. L'attenzione qui si concentra su donna Prassede, donna di poche idee, la maggior parte delle quali sbagliate, ma a queste lei era più affezionata. Era guidata da due stelle: quella del sentirsi predestinata a fare il bene e a guidare gli uomini, la gente, al bene di cui lei era interprete autorizzata e senza dubbi; e quella del pregiudizio in base al quale gli uomini e le donne che fossero in dissonanza con le autorità dello Stato o in rapporto affettivo coi dissidenti dovessero avere tare che solo chi possedeva, Come lei, il dono della verità, poteva curare e guarire. Nel processo educativo non le interessava la vita intellettuale e morale del soggetto: quello che faceva discendeva dalla convinzione che il suo operato era una risposta al privilegio che le concedeva il creatore. Si diceva animata da amore per gli altri, per i diseredati, per i compromessi in errori: e per questa parte lei è il prototipo della dama di carità, della nobile che tra gli impegni che svolge con la stessa sicumera e indifferenza ha anche quello dell'amore e dell'aiuto da dare a chi essa ne giudica degno. Di simili tipi di donna di carità, di aristocratica che di tanto in tanto fa visita a qualche tana o fissa un giorno della settimana, quello e nessun altro, per le elemosine, il Manzoni trovava una certa tipologia nelle poesie del suo conterraneo Porta, operante tra la fine del Settecento e i primi anni dell'Ottocento. Si tratta di un tipo di donna che si ritiene portatrice di verità, di effettiva carità, di fedeltà al Vangelo. E qui interviene l'acuto spirito manzoniano a svelare quanto in donne, come donna Prassede, ci sia di falso e di immorale e soprattutto di anticristiano. Ciò che caratterizza questa benefattrice è la vanità, l'orgoglio di casta, la superiorità dell'aristocratica, l'assenza di autenticità caritativa, l'eccesso di fiducia in se stessa, la volontà di imporre agli altri i principi nei quali crede secondo una linea di azione e di giustificazione che può farsi risalire ai Gesuiti del Cinquecento, e ai loro sistemi educativi fondati sull'autoritarismo e sulla riduzione dell'alunno al modello da loro prefissato. "Difetto capitale di donna Prassede è insomma, come sotto forma ironica dice benissimo il Manzoni stesso, il prendere per cielo il suo cervello, ossia il mancare di caritatevole simpatia e di umano rispetto riguardo agli altri, di umiltà e di scetticismo riguardo a se stessa; il cristiano Manzoni, che così bene conosce la miseria del nostro intelletto e così a lungo ha meditato sulla debolezza dell'uomo non sorretto e illuminato dalla Grazia, non può non polemizzare con questa boriosa sufficienza: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e 'Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quello che abbiamo fatto in casi somiglianti' dice Federigo Borromeo, che è un santo, a don Abbondio che è don Abbondio; ma donna Prassede non dirà mai tali parole, ché non penserà mai di esser tra quelli che possono essere giudicati, corretti, ripresi" (Petronio). Ma questa faccendona, così presuntuosa e priva di dubbi, così sicura di essere I Interprete della verità religiosa e morale "porta la sua condanna in se stessa" e con ciò si vuoi dire "che per lei non c'è speranza di salvezza". A suo paragone, una grande peccatrice come Gertrude ha più sicure speranze di redimersi, perché dove c'è tormento, dramma interiore, c'è quell'insoddisfazione che dà al peccatore il senso del proprio limite, e quindi la possibilità di ravvedersi. E ricordare Gertrude non è fuori luogo. Mentre essa infatti è disinteressata nel dare aiuto a Lucia e prova una tenerezza sconosciuta nel farle del bene, tanto da farsi perdonare un poco persino le sue torbide curiosità per la storia in cui entrano I amore di Renzo e la passionaccia di don Rodrigo, donna Prassede si era messa in testa che Lucia, in quanto fidanzata di un poco di buono, qualche cosa l'avesse, e quando la conosce, anziché correggere questo pregiudizio, se ne convince sempre più... E sta qui la spiegazione della severità del moralista, che non applica nei confronti di donna Prassede un intellettualismo di tipo settecentesco, ma è perfettamente coerente con il cristianesimo autentico, che è indulgente verso i poveri di spirito, comprensivo nei confronti di chi pecca travolto dalle passioni, ma intransigente contro il peccato di superbia, il più grande dei peccati contro Dio, quello di Lucifero: e la presunzione è una specie particolare di superbia.
Approfondimento sulla casa del sarto

In tutta questa parte dei capitolo, se la scena continua a incentrarsi su Lucia che con sé conduce, quasi sotterranea linea di congiunzione, gli altri personaggi, qui, anche se marginalmente, convocati, il luogo che unifica i vari momenti è la casa del sarto. Una di quelle case non misere né sfarzose, modeste, semplici, ma con il segno della riservatezza, del calore umano, dell'ordine, della pulizia, della concordia, che tanto piacevano al Manzoni: soddisfacevano il suo gusto "democratico e il suo affetto per i valori riposanti e gratificanti, per gli angoli dove la vita anziché pulsare tumultuosa sembra rinchiudersi e stringersi a difesa e conservazione di cose intime e raccolte". All'interno della casa la buona donna che ne è la padrona ha modi delicati, non fa sentire per nulla il disagio alle ospiti, cerca di consolidare e liberare Lucia dall'angoscia dell'avventura sconvolgente, si mostra premurosa, si mantiene in un angolo durante la visita del cardinale che lei sa bene avere come protagonista Lucia. E vi fanno la loro comparsa i bambini, con un che di alacremente e gioiosamente petulante, con l'entusiasmo di chi vive un'avventura eccezionale. Ma tutta la casa è dominata dal sarto, il letterato non formato, l'uomo che si distingue tra il volgo del paese perché sa leggere e scrivere e ha alcuni libri che legge, e ritiene di essere stato dalla sorte maligna proiettato in una situazione che non è la sua. E trova finalmente l'attesa circostanza di potere sfoderare la sua cultura e di colloquiare con un vero letterato. E nella sua immaginazione chi sa quante volte si era formata l'immagine di sé seduto fra i dotti, tutti tesi al riconoscimento della sua cultura e della sua personalità. E al momento giusto tutto l'edificio crolla ed egli crolla con l'edificio: si fa prendere dall'affanno; delle molte frasi non convenzionali da lui in precedenza prescelte una sola ed insignificante gli giunge alle labbra e per tutta la vita continuerà ad assediano e a porsi come un costante rimprovero: quella brutta figura non gli si cancellerà dalla memoria. E qui accanto all'umorismo il Manzoni ha come un momento di umana pietà e comprensione: si tratta in fondo di un doloroso fallimento. Ed un altro personaggio si ripresenta: don Abbondio non solo vivo nel breve colloquio che intreccia per la strada con Agnese, ma anche nelle parole di questa denunciatrici al cardinale della viltà del curato, della disobbedienza ai doveri religiosi: occasione questa per l'attacco e la prosecuzione con un altro episodio, quello del colloquio tra il curato e il cardinale. Ma a questo punto dell'episodio si impone Agnese per tre suoi interventi: ha il coraggio di riferire al cardinale le colpe del curato, pronuncia su questo una frase piena di buon senso ritenendolo e giudicandolo non un perverso ma un debole, un uomo che ripetendosi la circostanza si sarebbe comportato nello stesso modo, afferma che in un mondo ingiusto (ed il cardinale approva) i birboni scaricano le colpe sui poveri e che questi hanno sempre torto. E nel colloquio con il cardinale bene si rileva la differenza spirituale tra Agnese e Lucia: Agnese è un'ottima donna, ma della figlia le mancano il pudore geloso, l'intimità religiosa, la scrupolosità etica, in una frase sola, la conformità piena e istintiva a quella legge di bene che il Vangelo codifica. Perciò è naturale, ed è in armonia con la sua natura di popolana vivace e chiacchierona, quest'accusa stizzosa contro don Abbondio, espressa con popolaresca confidenza in Federigo e con parole di sdegno per le pene a cui la viltà del curato ha abbandonato lei e la sua Lucia. Ed il Manzoni comprende e compatisce, tanto da commentare solo di un breve e scherzoso rimprovero ah, Agnese! Anche la piccola bugia che Agnese con la sua morale un po' accomodante si permette.

Versioni greco gratis Secondo stasimo (vv. 582-630)

Coro: Felici coloro ai quali la vita non ha gustato mali. Infatti a chi la casa sia sconvolta dagli dei, a questi nessuna sventura tralascia di cadere sull'intera stirpe;

così come quando l'onda a causa dei procellosi venti traci piomba sul tenebroso abisso del mare, rovescia dal fondo nera sabbia e rimbombano di gemiti le sponde esposte alla furia dei venti colpite in pieno. Da tempo antico vedo le sventure della casa dei Labdacidi abbattersi sulle sventure dei morti, né una generazione libera (l'altra) generazione, ma un dio la sconvolge e non ha scampo. E ora sull'estrema radice una luce si era diffusa nella casa di Edipo; (ma) a sua volta polvere insanguinata degli dei inferi la miete, e la follia della parola e la furia della mente. Quale superbia degli uomini potrebbe vincere la tua potenza, Zeus? Che né il sonno vince mai che...a tutto porta vecchiezza né le stagioni divine infaticabili, ma eternamente governi (come) signore il fulgore scintillante dell'Olimpo. Sia nel domani sia nel fututo e nel passato vigerà questa legge: nella vita dei mortali nessun eccesso viene senza sventura. In verità la speranza vagante per molti (degli) uomini è sì giovamento, ma per molti è inganno di vani amori; e si insinua nell'uomo che nulla sa prima che uno si sia scottato il piede al fuoco ardente. Con saggezza da taluno un detto mirabile è stato rivelato: che il male talvolta sembra essere un bene per colui al quale il dio conduce la mente a rovina; e brevissimo tempo ottiene senza rovina. Ecco Emone, l'ultimo rampollo dei suoi figli; giunge afflitto per la sorte della promessa sposa Antigone, (e) angosciato per la delusione delle nozze mancate.

Tema svolto gratis I Promessi Sposi capitolo 24

Lucia s'era destata da poco dal sonno profondo

in cui era caduta dopo aver fatto alla Madonna il voto di castità, se fosse stata liberata e restituita a sua madre. Grande è la sua gioia al mattino, quando sente di essere libera. L'Innominato si affretta a chiederle perdono. Con la stessa lettiga con cui la donna era venuta al castello, anche Lucia si avvia in paese. La discesa è tormentosa per don Abbondio, che sembra il centro di attrazione di tutti i guai. La mula, nonostante i tentativi di farla camminare al centro del sentiero, scende lungo l'orlo: sotto c'è il vuoto. Tutto sembra collaborare a fare di lui nolente un missionario, tutto sembra avviano al martirio. E non c'è solo la mula testarda a tormentarlo, ma anche il pensiero di don Rodrigo, che non potendo sfogarsi contro il cardinale, potrà riversare su di lui tutta la sua collera. Quando è in fondo alla valle, decide di tornare subito al suo paese. Decisamente non è uomo nato per le avventure. Ma più cerca di scansarle, più queste vanno in cerca di lui. Lucia è ospitata e rifocillata dalla moglie del sarto. Intanto si manda a chiamare Agnese. Nel pomeriggio, all'improvviso, giunge nella stessa casa del sarto il cardinale: vuole fare una visita a Lucia. Ottiene anche altre informazioni su Renzo e su don Abbondio che non aveva voluto sposare i due promessi. Queste ultime notizie le dà Agnese. Quando si allontana, il sarto che è un po' letterato e aveva sognato da sempre l'incontro con un uomo di cultura, non sa dire altro al cardinale che un banale "Si figuri!". Questa figuraccia lo accompagnerà per tutta la vita. Intanto l'Innominato nel castello riunisce tutti i bravi e ad essi comunica il suo proposito di cambiare vita. Ed il cambiamento doveva avere effetto immediato: ogni ordine scellerato veniva cassato: coloro che se la sentivano di mutare vita e di seguirlo nella nuova dimensione umana, sarebbero stati suoi graditi compagni. Gli altri potevano andarsene dopo aver ciascuno ottenuto ciò che gli spettava. La sera accanto al letto recita una preghiera, quella già detta durante l'infanzia e che si era miracolosamente depositata nella sua memoria.

Versioni greco gratis Sofocle - Antigone Secondo episodio (vv. 384-581)

Guardia: Questa è colei che ha compiuto l'azione: l'abbiamo presa mentre lo seppelliva. Ma dov'è Creonte?


Coro: Eccolo, viene di ritorno dalla reggia a proposito.
Creonte: Che c'è? Per quale circostanza sono arrivato a proposito?
G.: Signore, per i mortali non c'è niente su cui si può giudicare che non si farà. Infatti la riflessione smentisce l'intenzione; poiché io difficilmente mi sarei augurato di tornare ancora qui per le tue minacce da cui sono stato allora tempestato. Ma la gioia al di fuori e al di sopra di ogni speranza non somiglia affatto in grandezza a un altro piacere, sono venuto, pur mancando al mio giuramento, per condurti questa fanciulla che è stata colta mentre rendeva gli onori funebri. Questa volta non c'è stato un sorteggio, ma è scoperta mia, non di un altro, questa. E ora, signore, avendola presa tu stesso giudicala e confutala come vuoi; io è giusto che sia libero e allontanato da questi mali.
Cr.: Conduci costei avendola presa in che modo e da dove?
G.: Costei stava seppellendo l'uomo: sai tutto.
Cr.: Ma tu comprendi e dici esattamente quello che stai dicendo?
G.: (Si), in quanto l'ho vista dare sepoltura al cadavere che tu avevi proibito (di seppellire). Non dico cose chiare ed evidenti?
Cr.: E come è stata vista e colta in flagrante?
G.: La cosa è andata così. Quando infatti ci allontanammo, essendo stati minacciati di quelle terribili pene da parte tua, avendo tolto tutta la polvere che ricopriva il cadavere, e avendo pulito bene il corpo putrescente, ci disponemmo su alti colli sottovento, avendo evitato che ci colpisse il suo cattivo odore, scuotendoci a vicenda a stare svegli con male parole, se qualcuno si fosse sottratto a questo compito. Per tanto tempo queste cose accadevano, finché in mezzo al cielo rimase splendente il cerchio del sole e il calore bruciava; e allora all'improvviso un uragano avendo sollevato da terra un nembo di polvere, celeste tormento, riempì la pianura, scompigliando tutta la chioma della selva piana, e ne fu pieno il vasto cielo; avendo chiuso gli occhi sopportavamo la furia divina. Ed essendosi questo allontanato dopo lungo tempo, la fanciulla apparve e proruppe in un acuto gemito di uccello disperato, come quando scorge il giaciglio del nido vuoto privato dei piccoli, così anche lei quando vide il cadavere scoppiò in gemiti e pronunciò terribili maledizioni contro coloro che avevano compiuto l'azione. E subito portò con le mani polvere densa, e dall'alto da un'anfora di bronzo ben lavorata onorò il morto con triplice libagione. E noi avendola vista ci precipitammo, subito la afferrammo per nulla turbata, e le rimproveravamo le azioni di prima e di adesso; e lei rimase senza negare nulla, nello stesso tempo con piacere per me e con dolore insieme. È cosa dolcissima infatti essere fuggito ai mali, mentre è doloroso trarre gli amici alla sventura. Ma per me è naturale considerare tutto il resto inferiore alla mia salvezza.
Cr.: A te (dico), a te che pieghi il capo a terra, ammetti o neghi di averlo fatto?
An.: Ammetto di averlo fatto e non lo nego.
Cr.: Tu puoi andartene dove vuoi, libero fuori da ogni grave accusa; e tu dimmi, non per le lunghe ma brevemente, sapevi che questo era stato bandito di non farlo?
An.: Lo sapevo; perché non dovevo? Infatti era chiaro.
Cr.: Eppure hai osato violare queste leggi?
An.: Infatti per me non era affatto Zeus che mi vietava queste cose, né la Giustizia che dimora con gli dei Inferi fissò tali leggi tra gli uomini, né io pensavo che i tuoi decreti avessero tanto potere che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e immutabili degli dei. Infatti queste (leggi) non sono affatto di oggi né di ieri ma di sempre e nessuno sa da quando apparvero. Io non dovevo, temendo la volontà di nessun uomo, scontare la pena al cospetto degli dei di queste (leggi). Infatti sapevo che sarei morta, perché no? Anche se tu non lo avessi bandito. E se morirò prima del tempo, questo lo chiamo un guadagno. Chi infatti come me vive in molte sventure, come non riporta un guadagno se muore? Così per me avere questa sorte non è dolore per nulla, ma se io avessi lasciato il figlio di mia madre cadavere insepolto, di tale cosa avrei sofferto; di questo invece non soffro. E se ti sembra che io ora per caso agisca da folle forse devo a un folle la mia follia.
Co.: L'indole fiera della fanciulla dimostra (di discendere) da fiero padre; e non sa cedere ai mali.
Cr.: Ma sappi che i caratteri troppo duri il più delle volte cadono, e il ferro più forte temprato dal fuoco, indurito potresti vederlo il più delle volte spezzato e infranto. Io so che i cavalli imbizzarriti sono domati con un piccolo morso; infatti non è possibile che insuperbisca chi è servo di altri. Costei sapeva allora di sbagliare trasgredendo le leggi vigenti; e dopo averlo fatto, questa è una seconda colpa, vantarsi di queste cose e gioire di averle fatte. Davvero ora io non sono un uomo, ma costei è uomo, se questa audacia rimarrà per lei impunita. Ma se lei si trova ad essere figlia di mia sorella o si trovasse ad essere più consanguinea di tutto il nostro Zeus protettore del focolare domestico, lei e la sorella non sfuggiranno a una terribile sorte; infatti dunque accuso anche lei di aver tramato parimenti questa sepoltura. Chiamate anche lei: infatti poco fa l'ho vista in casa folle e fuori di senno. L'animo furtivo di coloro che non tramano niente di buono nell'ombra di solito viene sorpreso prima. Di certo detesto anche quando uno, sorpreso a commettere il male, poi voglia vantarsi di ciò.
An.: Vuoi qualcosa di più grande che uccidermi dopo avermi presa?
Cr.: Io non voglio niente (altro): avendo questo io ho tutto.
An.: Perché dunque indugi? Come nelle tue parole nulla mi è gradito, né mai possa piacermi, così anche le mie parole sono per natura sgradite a te. E poi da dove avrei potuto avere una gloria più gloriosa che ponendo nel sepolcro mio fratello? Da tutti costoro sarebbe detto che ciò è gradito, se la paura non bloccasse loro la lingua. Ma la tirannide gode di molte cose e le è lecito fare e dire ciò che vuole.
Cr.: Tu sola vedi questo fra i Cadmei?
An.: Lo vedono anche costoro; ma per te chiudono la bocca.
Cr.:E tu non ti vergogni di pensare diversamente da costoro?
An.: Non è per nulla turpe onorare i consanguinei.
Cr.: Dunque non era dello stesso sangue anche colui che è morto combattendo contro (di lui).
An.: Dello stesso sangue da una sola madre e dallo stesso padre.
Cr.: Come dunque rendi un onore empio per lui?
An.: Non dirà la stessa cosa colui che è morto.
Cr.: Certamente se lo onori alla pari con l'empio.
An.: Non è affatto morto uno schiavo ma mio fratello.
Cr.: Ma devastando questa terra, mentre l'altro si opponeva a suo favore.
An.: Tuttavia l'Ade ama questi riti.
Cr.: Ma il buono non è pari al malvagio nell'ottenerli.
An.: Chi sa se sottoterra queste cose sono sacre?
Cr.: Di certo il nemico non è mai caro neppure quando sia morto.
An.: Di certo non sono nata per condividere l'odio ma l'amore.
Cr.: Ora, se devi amare, essendo andata sottoterra ama quelli (di là); finché io vivo non comanderà una donna.
Co.: Ed ecco Ismene davanti alle porte, che versa lacrime d'amore per la sorella, una nube sulle ciglia deturpa il volto rosso come il sangue, sfiorando il bel viso.
Cr.: E tu, che insinuata nella mia casa come una vipera mi succhiavi il sangue di nascosto, e io non mi accorgevo di allevare due rovine e distruzioni del mio trono, suvvia, dimmi, anche tu ammetterai di aver partecipato a questa sepoltura, o giurerai di non sapere (nulla).
Is.: Ho compiuto l'azione, se costei lo consente, e partecipo della colpa e la sopporto.
An.: Ma la Giustizia non te lo consentirà, poiché tu non volesti né io ti volli complice.
Is.: Ma nei tuoi mali non mi vergogno di farmi compagna di viaggio del tuo dolore.
An.: Di chi è l'opera ne sono consapevoli Ade e i morti laggiù; io non amo una persona cara che ama a parole.
Is.: Tuttavia, sorella, non negarmi l'onore di morire con te e di aver onorato il morto.
An.: Non morire insieme a me e non fare tue le cose che non hai neppure toccato. Basterò io a morire.
Is.: E quale vita sarà cara a me privata di te?
An.: Chiedilo a Creonte; infatti ti curi di lui.
Is.: Perché mi tormenti con queste cose non guadagnandoci nulla?
An.: Soffrendo certo, se rido dei tuoi errori.
Is.: Ma in che cosa dunque ora potrei giovarti ancora?
An.: Salvati. Non ti impedisco di fuggire.
Is.: Ohimé infelice, dovrei rimanere esclusa dalla tua sorte?
An.: Tu hai scelto di vivere, io di morire.
Is.: Ma non per ragioni mie non espresse.
An.: Sembrava che io ragionassi bene ad alcuni, tu ad altri.
Is.: Eppure noi due abbiamo la stessa colpa.
An.: Fatti coraggio. Tu vivi, la mia anima invece è morta già da tempo, così da giovare ai morti.
Cr.: Io dico che queste due fanciulle l'una si è mostrata recentemente pazza, l'altra lo è già da quando è nata.
Is.: Infatti, signore, giammai la ragione che sia fiorita rimane a chi si trova in difficoltà, ma svanisce.
Cr.: Per te (è svanita), quando scegliesti di compiere il male coi malvagi.
Is.: Quale vita (potrebbe esserci) per me sola senza di lei?
Cr.: Ma non dire 'lei', infatti lei non c'è più.
Is.: Ma ucciderai la sposa di tuo figlio?
Cr.: Ci sono campi anche di altre donne da arare.
Is.: Ma non come c'era armonia per lui e per costei.
Cr.: Detesto cattive spose per i miei figli.
Is.: Carissimo Emone, come ti disprezza tuo padre!
Cr.: Troppo mi affliggi tu e le tue nozze.
Is.: Davvero priverai di costei tuo figlio?
Cr.: È l'Ade che porrà fine per me a queste nozze.
Coro: È stato deciso, come sembra, che costei muoia.
Cr.: (È stato deciso) per te e per me. Non fate più indugi, ma portatele dentro, servi; è necessario che queste donne siano legate e non lasciate libere. Infatti anche gli uomini arditi fuggono, quando vedono Ade ormai vicino alla loro vita.