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mercoledì 4 marzo 2009

La Divina Commedia Il Paradiso canto 6

Come i canti sesti dell'Inferno e del Purgatorio,

anche il canto sesto del Paradiso è un canto politico. Dante si trova nel secondo cielo (o di Mercurio), dove sono collocati gli spiriti attivi per il bene, il cui amore per Dio deviò verso fini terreni, e in particolare verso una fama onorevole. Il protagonista di questo canto è Giustiniano, che parla della funzione e della validità dell'Impero come istituzione voluta da Dio per la felicità terrena degli uomini. Se il mondo vive nell'ingiustizia e nel disordine, è necessario il ristabilimento di un'autorità politica (l'Impero) che garantisca l'ordine e la pace con le leggi (Giustiniano fu il promulgatore del codice di leggi su cui si basa il Medioevo). Quindi Giustiniano è il simbolo dell'autorità che interviene con le leggi per conservare la comunità degli uomini. Inoltre, secondo Dante, l'Impero è destinato a finire solo con il giudizio universale, così come la Chiesa: l'impero ha infatti la stessa durata e compiti paralleli alla Chiesa (teoria “dei due soli”). Dante, inoltre, ritiene che non ci sia stata mai frattura tra gli imperi: egli riconduce all'impero romano sia l'impero bizantino sia quello medievale, sia quello di Carlo Magno e quello di Federico II. Dall'accusa alla società, Giustiniano arriva a descrivere la nascita dell'Impero e della Chiesa: per gli uomini c'è un unico fine, che viene affidato da Dio a due diverse autorità, che sono l'Impero e la Chiesa. Il primo, tuttavia, si realizza pienamente solo quando aiuta la Chiesa a fondarsi e le dà Roma come sede.
Al verso 9 Dante spiega come per lui l'unico impero esistente sia quello romano, l'impero bizantino è la continuazione dell'Impero, in quanto si è semplicemente spostata la capitale da Roma a Bisanzio, da occidente a oriente, «contr' al corso del ciel». Persino Giustiniano è considerato il successore di Costantino, Traiano, Augusto e degli altri imperatori. L'impero non è destinato a finire, ma ha la stessa durata della Chiesa, e deve garantire la pace, la giustizia e la libertà. Costantino, spostando la capitale, violò la legge di Dio, disobbedì all'ordine naturale delle cose. Dante afferma che dal trasferimento della capitale alla nomina di Giustiniano che sono passati più di duecento anni; in realtà ne sono passati 197; Dante ha sbagliato a causa dell'errore di calcolo di Brunetto Latini. Il poeta, però gli riconosce anche un grande merito, quello di aver unificato in un solo codice l'insieme di tutte le leggi romane, correggendole ed eliminandone ogni discordanza ed anacronismo.
Al verso 27 c’è un altro errore di Dante: egli afferma che l'attività legislativa di Giustiniano inizia nel 533 a.C., dopo la conversione; in realtà non ci fu una vera e propria conversione perché non aderì mai all'eresia, ed inoltre inizia l'attività legislativa nel 528. Un altro punto è che egli fa dire a Giustiniano «... al mio Belisario...», in segno di affetto, ignorando o non considerando il fatto che talvolta fu anche imprigionato e perseguitato dall'imperatore.
Al verso 57 Dante dice che il fondatore dell'Impero è Cesare, che prese il potere per volontà del popolo di Roma: esso deve garantire la pace, mentre Dio prepara la discesa di Cristo in terra.
Al verso 90, dopo la descrizione delle imprese di Cesare e di Augusto, Giustiniano ricorda l'impero di Tiberio, considerato da Dante il momento più alto della storia dell'Impero, nonostante durante il suo regno fosse avvenuta la morte di Cristo. La vendetta cui Giustiniano accenna è da considerare nel senso della giustizia punitiva: Cristo con il suo sacrificio placò le ire del Padre. Inoltre, all'Impero fu affidato il compito di farsi strumento della giustizia divina, facendo eseguire da Pilato la condanna a morte di Cristo; accettandolo, Dio implicitamente ne riconobbe la legittimità.
Al verso 93 spiega che da un lato, Cristo doveva soffrire per liberare gli uomini, dall'altro Giustiniano afferma che fu giusto punire gli Ebrei, sotto l'impero di Tito, perché furono gli uccisori di Cristo. In entrambi i casi, però, è stata concretizzata la volontà di Dio, tramite l'aquila.
Al verso 108 Dante polemizza sia contro i ghibellini sia contro i guelfi. Contro i primi, perché essi mascherano dietro il simbolo dell'aquila, nobile e superiore insegna dell'Impero, le loro vendette, e contro i secondi, poiché erano più spavaldi in seguito all'aiuto politico e militare dato ad essi da Carlo II di Napoli. Entrambi devono temere, poiché dietro l'Impero c'è Dio.
Al verso 120, analogamente alla risposta di Piccarda nel canto III, Giustiniano afferma che i beati del cielo di Mercurio si sentono appagati, in quanto il grado di beatitudine è proporzionale ai loro meriti.
Al verso142 viene presentata da Giustiniano l'anima di Romeo di Villanova, un nobile feudatario, calunniato dai cortigiani, esempio di politico devoto, corretto e fedele, che fu respinto ed esiliato solo per aver compiuto il suo dovere. L'episodio di Romeo è un'implicita predizione dell'esilio di Dante.

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