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lunedì 2 marzo 2009

Recensione libro Il formaggio e i vermi di Cesare Garboli e Carl Ginzburg

Il testo rappresenta l'odissea di Domenego Scandella, un eretico vissuto nel Cinquecento, mugnaio friulano che

pensava con la sua testa. L'intrecciarsi di componenti storico-sociali e geografiche molteplici, nonché l'inquietudine di certi animi che - sovente in contrapposizione all'ortodossia corrente - scelgono modalità "diverse" di esprimere il loro pensiero e il loro modo di essere persona, soggiacciono ai diversi modi di accostarsi alla realtà e all'ordine precostituito. Nel Cinquecento, inoltre, le correnti riformatrici d'Oltralpe trovano seguaci in Lombardia, Piemonte, Veneto e altre zone dell'Italia centrosettentrionale, in centri che fin dal Medioevo erano focolai d'eresia. Il mito di una Chiesa primitiva, la riscoperta dell'elemento pauperistico in contrapposizione alla ricchezza - sempre attuale - di Santa Romana Chiesa, i risentimenti e le opposizioni politiche, in primo luogo contro i vescovi, fanno si che l'eresia si diffonda, nel giro di pochi decenni, nelle principali città della fascia padano-alpina della penisola. Nel panorama storico-sociale Cinquecentesco, la figura di Domenego Scandella, detto Menocchio, di Montereale del Friuli, si configura quale personalità curiosa e particolare, nel processo di affermazione del pensiero individuale, che è anche affermazione di identità personale e di gruppo. Benché la ricostruzione storica sia stata per troppo tempo storia di grandi e di potenti, gli incartamenti dei processi tenutisi contro di lui rappresentano una "traccia" importante dei sentimenti, dei pensieri, del modo di intendere la vita e il mondo da parte del mugnaio friulano, morto bruciato per ordine del Sant'Uffizio dopo una vita vissuta nella più completa oscurità. Inoltre, i documenti dei due processi ci restituiscono - nell'affascinante e documentata interpretazione di C. Ginzburg -, uno spaccato della storia delle classi subalterne, che è contemporaneamente "mentalità" e "cultura". Menocchio finì "giustitiato per il Santo Officio" a Pordenone il 6 luglio 1601. Nato a Montereale nel 1532, qui visse per tutta la vita; era sposato e aveva sette figli; altri quattro erano morti; aveva due campi a livello e agli inquisitori dichiarò che la sua attività era "di monaro, marangon, segar, far muro et altre cose", ma prevalentemente faceva il mugnaio, di cui portava anche l'abito tradizionale. Il 28 settembre 1583, Menocchio fu denunciato al Sant'Uffizio per avere, inoltre, cercato di diffondere le sue opinioni, argomentandole. Ciò aggravava, da subito, la sua posizione. Menocchio sapeva "leggere, scrivere et abaco", podestà del paese e amministratore della parrocchia, non viveva certo ai margini della comunità di Montereale. Quasi tutti gli interrogati dichiararono di conoscerlo da molto tempo e di volergli bene. I suoi discorsi erano conosciuti in paese e non dovevano apparire ai contadini di Montereale estranei alle loro credenze e al loro modo di pensare; nelle parole degli interrogati, non si riscontra ostilità nei confronti di Menocchio, tutt'al più disapprovazione. Tuttavia, che Menocchio si fosse arrogato nel villaggio un ruolo di maestro di dottrina e di comportamento, dal contenuto eterodosso, fu subito chiaro al Sant'Uffizio. Davanti al vicario generale stesso "il Scandella" affermò di parlare "da dovero", e che era "in cervello, non... mato". Inoltre, aggiunse, " è vero che io ho detto che se non havesse paura della giustitia parlarebbe tanto che farebbe stupire; et ho ditto che se havessi gratia di andar avanti o il papa o un re o un prin Inoltre, Menocchio era convinto dell'originalità delle sue idee, tanto che replicando a una precisa domanda degli inquisitori, disse: "Non ho mai praticato con alcuno che fusse heretico ma io ho il cervel sutil, et ho voluto cercar le cose alte et che non sapeva". Durante gli interrogatori Menocchio non mancò, come si riprometteva da tanto tempo, di "dir assai contra li superiori delle loro male opere". Denunciando, da subito, "l'oppressione esercitata dai ricchi sui poveri attraverso l'uso, nei tribunali, di una lingua incomprensibile come il latino", ripetutamente delineò una sua cosmogonia e una sua concezione del "mondo nuovo", conducendo la sua opposizione a un mondo corrotto e lontano, a una classe religioso-politica che delle classi subalterne riconosce soltanto i doveri, ma di cui non concepisce i più elementari diritti. Inoltre, nel suo linguaggio denso di metafore quotidiane, Menocchio spiegava agli inquisitori la sua cosmogonia - "Io ho detto che... tutto era un caos, cioè terra, aere, aqua et fuogo insieme; et quel volume, andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli..." - densa di quel solido strato di cultura orale che sottostva al codice di lettura con il quale Menocchio rimuginava i molti testi che senz'altro all'epoca aveva letto. Il desiderio di "cercar le cose alte" continuava ad apparirgli legittimo e - potenzialmente - alla portata di tutti; assurda doveva sembrargli, tutt'al più, la pretesa della cultura come privilegio dei chierici, detentori del monopolio di una conoscenza che si poteva comprare per "doi soldi" sulle bancarelle dei librai di Venezia. Oltre a elaborare una sua cosmogonia e a fantasticare sul paradiso e sulla vita ultraterrena, Menocchio desiderava un "mondo nuovo". La contrapposizione di una Chiesa ricca e corrotta - che aveva sotto gli occhi - alla povertà e alla purezza di una mitica Chiesa primitiva fanno sì che egli proietti consapevolmente l'immagine di una società più giusta in un futuro dove «le lotte di uomini come Menocchio - i contadini di Montereale ch'egli aveva cercato inutilmente di convincere, per esempio - avrebbero dovuto portare un "mondo nuovo"». Così, nonostante che l'inquisitore friulano - esitante - scrisse alla congregazione del Sant'Uffizio una lettera per comunicare i suoi dubbi, la sentenza di Roma fu chiara e durissima: "le dico per ordine della Santità di No-stro Signore ch'ella non manchi di procedere con quella diligenza che ricerca la gravità della causa, a ciò che non vada impunito de' suoi horrendi et essecrandi eccessi, ma co 'l debito et rigoroso castigo sia essempio agli altri in coteste parti...". E riconosciuti colpevoli, i condannati venivano affidati al braccio secolare, ossia all'autorità politica laica per l'esecuzione della sentenza (perché "la Chiesa aborrisce dal sangue", ma il risultato non cambiava). È su questo sfondo di annientamento e di cancellazione della cultura popolare che si staglia la storia di Menocchio, un caso limite ma - comunque - rappresentativo nel complesso processo di affermazione e di sopraffazione delle idee. Una storia non unica nel panorama storico-sociale e culturale della penisola e nata dall'esigenza delle classi dominanti "di recuperare, anche ideologicamente, le masse popolari che minacciavano di sottrarsi ad ogni forma di controllo dall'alto - mantenendo però, anzi sottolineando le distanze sociali". Nell'Europa del '500, i contadini e le plebi urbane trasferirono subito gli ideali evangelici di libertà e di uguaglianza dal terreno religioso al terreno politico, accogliendo le spinte provenienti dalla diffusione delle idee legate alla Riforma protestante come un invito alla lotta contro le secolari servitù che li opprimevano, come un incentivo alle borghesie cittadine a emanciparsi dalle autorità costituite. Di quanto Menocchio ebbe co Anche se la storia è, sovente, storia di tirannie e di sopraffazioni, non si può non considerare che forse, ogni tanto, c'è bisogno di uomini liberi o di comunità che ponendosi contro l'"ortodossia" corrente affermano il loro diritto all'identità, e di conseguenza alla diversità, mettendo in atto coraggiose scelte di libertà. Menocchio - più o meno consapevolmente - è uno di questi. Ma è anche dall'esperienza delle persecuzioni subite che gli individui e i popoli trarranno motivi di riflessione e di ripensamento dai quali, attraverso un lungo travaglio, si apriranno spazi alla coscienza di sé e alla responsabilità del singolo, nasceranno i principi della libertà di pensiero e della inviolabilità della coscienza individuale. Di Menocchio gli "archivi della repressione" ci hanno permesso di sapere molte cose, di tanti altri come lui, vissuti e morti senza lasciare traccia, unico testimone è il "dimenticatoio" della storia.

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