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lunedì 2 marzo 2009

Tema svolto gratis Gli etruschi

Fra tutti i popoli dell’antichità gli Etruschi occupano oggi, ai nostri occhi, un posto del tutto particolare.

La loro lunga storia ebbe inizio nei primi anni del VII secolo a. C. e si concluse solamente poco tempo prima dell’era cristiana. In guerra dapprima contro i Greci, ai quali essi contesero l’egemonia nel Mediterraneo, quindi contro i Romani i quali furono costretti a combattere duramente prima di sottometterli, gli Etruschi occupano una posizione di grande rilievo nelle opere degli autori sia di lingua greca che latina. Il loro nome, che ispirava una volta tanto timore, appare continuamente negli Annali di Livio; e Virgilio nella sua epica descrizione delle origini di Roma, si sentì in dovere di narrare con ampiezza di particolari le loro gesta. Ancora oggi nell’Umbria, nella Toscana e nel Lazio numerose sono le tracce delle città e delle necropoli etrusche. Attraverso i secoli scoperte fortunate e scavi organizzati hanno portato alla luce un numero straordinario di oggetti di ogni genere - sculture, pitture e prodotti delle arti minori - provenienti dalle scuole di arte e dalle botteghe artigiane dell’Etruria. Malgrado la forza evocatrice di tali reliquie, che illustrano gli aspetti di una sviluppatissima civiltà, l’Etruria si presenta tuttora a scienziati e a profani come un misterioso e impenetrabile fenomeno.

Molteplici sono gli enigmi che concorrono a dare a questi primi abitanti della Toscana un aspetto singolare e segreto. Ci fu, è vero, un generale consenso per la tesi tradizionale esposta dalla penna di Erodoto; secondo questi, gli Etruschi emigrarono via mare dalla Lidia e da altre località dell’Asia Minore verso le soleggiate spiagge del Mar Tirreno. Tale origine asiatica è accettata senza esitazione dalla maggior parte degli autori antichi. Ma Dioniso di Alicarnasso, retore greco, che visse a Roma ai tempi di Augusto, rifiutò di condividere questa opinione generale e sostenne che gli Etruschi ebbero origini autoctone. Le discussioni sono continuate fino ai nostri giorni.

La decifrazione della lingua etrusca è questione complessa e dibattuta: malgrado secoli di tentativi, non è stata trovata nessuna soluzione all’enigma tuttora presentato da un idioma che ne sta curiosamente appartato tra le lingue antiche.

Ma la storia e la civiltà etrusche, così importanti per il destino della civiltà occidentale nell’antichità, non sono circondate da oscurità o da misteri nelle loro linee generali. I testi greci e latini che parlano degli antichi Toscani e soprattutto la preziosa documentazione offerta dagli oggetti rinvenuti, sia grazie agli sforzi degli archeologi sia per mera fortuna, permettono di formarci una visione ampia della civiltà etrusca; e quantunque alcune aree siano meno chiaramente definite di altre, tale visione porta alla luce un’intera nazione con la sua organizzazione politica e sociale, la sua economia, le sue credenze religiose, le sue creazioni artistiche.

Si cercherà quindi di fare un’analisi della natura dei problemi rimasti insoluti e di descrivere l’affascinante storia dell’antica Etruria, studiando nelle successive fasi i differenti aspetti della civiltà del popolo etrusco, la sua vita pubblica e privata, la sua religione, la sua arte.

Si riuscirà così a raggiungere una certa conoscenza della vita di un paese e di un popolo che cominciò a svolgere un ruolo importante nella storia dell’Occidente agli inizi del VII secolo a.C., e che fu conquistato da Roma solo al prezzo di lunghe e dure guerre. Anche dopo che l’Etruria cadde a seguito dell’aggressione delle legioni romane verso la metà del III secolo a.C., il suo ruolo culturale non fu interrotto. L’artigianato etrusco continuò la produzione sul territorio toscano fino alla metà del I secolo a.C.; così per quanto concerne l’insegnamento religioso, come praticato dagli “aruspici”, i Romani lo fecero proprio fino alla caduta dell’Impero, quando lo stesso paganesimo greco-romano aprì alla fine la via al cristianesimo.

In merito ai vasti problemi sollevati dalla civiltà etrusca il lavoro degli archeologi e degli storici ha recato un contributo costante ai fini della conoscenza e di una documentazione positive, che ci mettono nelle condizioni di poter vagliare antiche tradizioni e colmare un gran numero di lacune.
Ipotesi sull’origine degli etruschi

Le teorie accreditate presso gli antichi facevano concordemente arrivare gli Etruschi, in Italia, dall’Oriente poco prima dell’inizio dei tempi storici. L’unica divergenza riguardava il popolo a cui gli Etruschi erano collegati e dal quale sarebbero derivati.

Secondo lo storico greco del V secolo a.C. Erodoto, si sarebbe trattato dei Lidi che, in seguito ad una carestia, avrebbero abbandonato la loro patria, in Asia Minore, e sarebbero giunti in Italia alla guida di Tirreno, figlio del re Atys, dal quale avrebbero poi preso il nome di Tirreni o Tyrsenoi (che era quello col quale effettivamente i Greci chiamavano gli Etruschi).

Secondo gli altri due storici greci Ellanico e Anticlìde, rispettivamente del V e del IV-III secolo a.C., si sarebbe trattato invece dei Pelasgi, giunti in Italia dopo aver variamente navigato per il mare Egeo (secondo Ellanico) e dopo aver colonizzato le isole egee di Imbro e di Lemno (secondo Anticlide).

La tesi che prevalse nell’antichità fu tuttavia quella di Erodoto, al punto che l’origine lidia degli Etruschi divenne un luogo comune. Così Virgilio, nell’Eneide, usa i due termini, Lidi ed Etruschi, indifferentemente, mentre gli abitanti di Sardi, l’antica capitale della Lidia, erano definiti ufficialmente, in età romana, “fratelli e consanguinei del popolo etrusco”.

Ci fu però, nella stessa antichità, una voce discorde: quella di Dionisio di Alicarnasso, un altro storico greco vissuto nell’età di Augusto, il quale, dopo aver respinto l’identificazione degli Etruschi con i Lidi o con i Pelasgi, sostenne che essi erano autoctoni, e, per rinforzare la sua tesi, asserì di aver ascoltato quell’opinione proprio presso gli Etruschi “i quali - osservava - non chiamavano se stessi Tirreni bensì Rasenna”.

Dionisio rimase però inascoltato e la sua teoria non ebbe seguito. Soltanto ai nostri tempi essa è stata ripresa in considerazione, quando, anche sulla scorta di quella voce discorde, gli studiosi si sono riproposti il problema delle origini etrusche. Sono state allora riprese le antiche teorie e a conforto dell’una o dell’altra sono stati invocati i dati offerti dalla documentazione archeologica, utilizzandoli però in maniera parziale e fondamentalmente preconcetta.

I sostenitori moderni dell’origine orientale hanno così tentato di ricollegare l’ipotetica migrazione del Lidi alla diffusione in Etruria della civiltà orientalizzante, documentata nel corso del VII secolo a.C. dalla vistosa presenza di oggetti (ma anche di usi, costumi, idee) provenienti dai paesi del bacino orientale del mediterraneo. Ma la prova non ha retto ad un triplice ordine di considerazioni: l’influsso culturale dell’Oriente non riguarda soltanto l’Etruria ma anche la Grecia e altri paesi del bacino occidentale del Mediterraneo, la tradizione antica colloca l’arrivo in Italia dei Tirreni nel XIII secolo a.C. e dunque in un periodo molto lontano da quello della civiltà “orientalizzante”; questa infine si manifesta in Etruria con un passaggio graduale dalla fase culturale precedente, rispetto alla quale non c’è dunque quel cambiamento radicale e istantaneo che ci sarebbe stato con l’avvento di un popolo nuovo.

Quanto alla tesi dell’autoctonia, si è cercato di accreditarla considerando gli Etruschi un relitto di antichissime genti neolitiche appartenute ad un originaria unità mediterranea ed emarginate dal sopraggiungere degli “italici” indoeuropei. A questa tesi si è tentato di dare forza sottolineando l’isolamento della lingua etrusca nel contesto delle altre lingue dell’Italia antica e attribuendo agli Italici la novità del rito funebre della cremazione (rispetto a quello dell’inumazione) documentato dalle scoperte archeologiche.

Ma l’area interessata dalla cremazione corrisponde proprio a quella che in piena età storica era occupata dagli Etruschi e non dagli Italici.

Questo per quanto riguarda le teorie degli antichi.

Ma per risolvere il loro insolubile contrasto, si ne è poi escogitata una terza, rivelatasi anch’essa del tutto inconsistente. Essa ipotizzava una discesa degli etruschi dal settentrione attraverso le Alpi e si basava su due argomentazioni: una, di carattere archeologico, riguardava certe affinità tra le culture dell’età del ferro in Etruria e nell’Europa centrale; l’altra, d’origine storica, aveva a che fare con una notizia di Tito Livio, secondo la quale la popolazione alpina dei Reti (stanziata tra la valle dell’Adige e il Tirolo) sarebbe derivata dagli Etruschi (e per convalidare tale rapporto si invocava l’analogia tra il nome di Reti e quello di Rasenna che, come si è visto, Dionisio di Alicarnasso riconosceva quale nome nazionale degli Etruschi.

A parte l’infondatezza di questo raffronto, per demolire la tesi “settentrionale” è bastato osservare che Livio non parla affatto dei Reti come del relitto di una migrazione ma piuttosto come del risultato di un fenomeno di emarginazione di genti di origine etrusca della pianura padana nelle valli alpine, incalzate dall’invasione dei Celti. Quanto ai punti di contatto tra le culture del ferro, essi si riscontrano non soltanto in Etruria, ma anche in altre regioni della penisola italiana e pure fuori d’Italia.

Quindi non rimane altro che l’indiscutibile constatazione della continuità culturale, sul suolo etrusco, tra l’età del bronzo e l’età del ferro. Ciò, se da un lato ricaccia sul piano delle fantasie ogni possibile idea di invasione e di migrazione, conduce, dall’altro, proprio a quel concetto di lenta e graduale formazione al quale correttamente si affida l’indagine sulla nascita del popolo etrusco. Alla quale, per concludere, debbono certamente aver contribuito elementi provenienti dal mondo egeo-anatolico, come è forse adombrato nel racconto di Erodoto che, come spesso avviene nelle tradizioni degli antichi, contiene almeno un fondo di verità non in contrasto con le nostre possibili ricostruzioni. Un piccolo gruppo di navigatori orientali deve essere approdato, in un certo momento, sulle coste di quella che sarebbe poi diventata l’Etruria (così come dovette avvenire nel Lazio, secondo quanto rivela la leggenda dell’arrivo dei Troiani di Enea). E potrebbe anche essere stato quel gruppo di navigatori a portare con sé almeno il nucleo fondamentale della futura lingua etrusca, dato che innegabili consonanze e probabilmente una vera e propria parentela genetica collegano all’etrusco la lingua egea documentata nell’isola di Lemno (quella dei Pelasgi di Anticlide) prima della conquista ateniese, alla fine del VI secolo a.C.

Tutto ciò anche alla luce di certe fonti egiziane relative al faraone Ramsete III (1197-1165 a.C.) le quali, riferendo di un tentativo di invasione dell’Egitto da parte di genti indicate come “popoli del mare”, menzionano tra quelle i Turuscia, che alcuni studiosi propongono di identificare con i Tyrsenoi della tradizione greca, ossia con i Tirreni/Etruschi. I quali dunque, respinti dagli Egiziani e ripreso il mare, sarebbero alla fine approdati sulle coste d’Italia.

Non si tratta che di spunti, certamente suggestivi e tali in ogni caso che non possono essere né ciecamente accettati né aprioristicamente respinti. Anche perché essi ci riportano ad un periodo dell’antica storia mediterranea, quale è quello della fine del II millennio a.C., che è comunque contraddistinto da una intensa attività marinara e da sicuri movimenti di popolazioni che accompagnarono e seguirono (e forse anche determinarono) la crisi ed il crollo dei vecchi imperi e in particolare del mondo miceneo.

Ma tutto questo può aver fatto parte della “preistoria” degli Etruschi. La storia ci assicura che essi divennero una realtà concreta, nuova rispetto a qualsiasi precedente, al termine di complesse vicende svoltesi per intero nella regione d’Italia che da essi prese poi il nome.
Insediamento ed espansione degli etruschi

Gli Etruschi fecero la loro comparsa alla ribalta della storia quando i Greci, nell’VIII secolo a.C., cominciarono a dar vita, nella penisola italiana e in Sicilia, ai loro stanziamenti commerciali e poi alle vere e proprie colonie di popolamento. Le più antiche menzioni di quelli che gli stessi Greci chiamavano Tirreni (Tyrrenoi o Tyrsenoi) riguardano anzi proprio l’azione di disturbo da essi svolta sul mare nei confronti dei coloni; lo storico Eforo, ad esempio, scrive che i Greci che nella seconda metà dell’VIII secolo fondarono le prime colonie siciliane, a Naxos presso Taormina, e a Megara Hyblaea, non lontano da Siracusa, non lo avevano fatto prima perché “temevano le scorrerie dei Tirreni”.

Siano più o meno esatte queste notizie, non vi è dubbio che al tempo della colonizzazione greca gli Etruschi erano i meglio organizzati e i più intraprendenti di tutti i popoli che si trovavano lungo la fascia costiera tirrenica: già largamente presenti sul mare che, non a caso, ancora i Greci chiamarono col loro stesso nome (Mare Tirreno) e da tempo in contatto con genti che abitavano lontano dall’Italia meridionale alla Sardegna.

La riprova sta nella fondazione degli avamposti greci a Pitecusa (Isola d’Ischia) verso il 770 a.C. e a Cuma sulla terraferma campana, intorno al 730, nella zona più lontana raggiunta dai coloni rispetto alle loro regioni di provenienza. Evidentemente, si trattava dei luoghi più adatti (e al tempo stesso sicuri) per entrare in rapporto diretto con gli Etruschi a scopi commerciali: prima di tutto, per potersi approvvigionare dei metalli di cui essi largamente disponevano. In altre parole, la colonia di Cuma e, prima ancora, l’emporio di Pitecusa, presuppongono l’esistenza di interlocutori validi, organizzati e affidabili i quali, d’altronde, rendevano anche rischiosi ma soprattutto inutili eventuali stanziamenti più settentrionali. L’archeologia, da parte sua, ci rivela che al momento dell’arrivo dei Greci, tutti i luoghi in cui avranno poi sede le grandi città dell’Etruria storica - sugli estesi altipiani tufacei di Veio, di Cere, di Tarquinia, di Vulci; sulle alture isolate a dominio del mare o di laghi costieri, di Populonia e di Vetulonia; sui colli più interni a controllo di importanti itinerari naturali, di Volsini e di Volterra - erano già occupati da nuclei di villaggi strutturati in sistemi organici e in via di progressiva concentrazione e unificazione. Quei villaggi erano nati agli inizi dell’età del ferro, nel secolo IX a.C., a seguito di una generale riorganizzazione del territorio e del popolamento caratterizzata dall’abbandono dei vecchi abitati preistorici della tarda età del bronzo e dalla scelta di siti più adatti all’agricoltura, allo sfruttamento delle miniere ed agli scambi. Questa novità era parte di un fenomeno più vasto che in quel medesimo periodo interessò gran parte della penisola italiana manifestandosi con l’emergere in regioni diverse di culture locali alle quali sono da ricondurre le origini dei popoli storici dell’Italia. Una di quelle culture che, con termine convenzionale, è stata chiamata “villanoviana” (dal nome della località bolognese di Villanova dove nel secolo scorso fu per la prima volta individuata), riguardò l’area geografica della futura Etruria, o di quella che a ragione gli studiosi chiamano la “grande Etruria”: vale a dire, l’Etruria propria, costituita dai territori compresi fra il Tevere e l’Arno, più le zone di espansione corrispondenti all’Emilia Orientale, da una parte, e dall’altra alla Campania attorno a Capua e nel Salernitano, da Pontecagnano fino al Vallo di Diano. In questa cultura si può riconoscere il primo manifestarsi del processo di formazione che in quella stessa area geografica condurrà alla nascita della “nazione” etrusca.

Si può dire dunque che con la cultura villanoviana nel IX secolo a.C. ebbe inizio la storia etrusca. Il periodo è quello stesso al quale con significativa coincidenza riconduce la “memoria storica” che gli stessi Etruschi ebbero della propria vicenda. A questa, infatti, veniva assegnata una durata di dieci secoli, non tutti della stessa lunghezza ma scanditi dall’apparizione di prodigi e di fenomeni celesti, con l’ultimo secolo che sarebbe cominciato, secondo gli Aruspici del tempo, nell’età di Augusto. Sempre al IX secolo è possibile far risalire, sia pure indirettamente, le testimonianze relative alla lingua. Le più antiche iscrizioni etrusche conosciute sono databili agli inizi del VII secolo a.C., ma si deve pensare ad un periodo più o meno lungo durante il quale la lingua fu parlata senza essere scritta, fino al momento dell’introduzione della scrittura resa possibile dall’adozione dell’alfabeto trasmesso agli Etruschi dai coloni greci di Ischia e di Cuma. Dato poi che nelle prime iscrizioni conosciute i segni alfabetici greci appaiono già pienamente adattati alle esigenze fonetiche dell’etrusco, evidentemente a seguito di un processo di definizione e di consolidamento protrattosi per qualche tempo, di può arguire che l’introduzione della scrittura in Etruria deve essere avvenuta non molto dopo la metà dell’VIII secolo a.C. Di conseguenza, il periodo in cui la lingua fu parlata senza essere scritta può facilmente risalire al secolo precedente.

Sulla base della documentazione archeologica (peraltro quasi esclusivamente proveniente dalle necropoli), i villaggi “villanoviani” appaiono organizzati con caratteri di stabilità e in forme di società indifferenziate, con un’economia di sussistenza fondata sull’utilizzazione in comune delle risorse agricole e dell’allevamento e su modeste attività artigianali di tipo domestico. Agli inizi dell’VIII secolo, soprattutto nei villaggi della fascia costiera, questa struttura egualitaria cominciò a modificarsi per iniziativa di singoli individui volti a sfruttare risorse e attività a proprio vantaggio, accumulando le ricchezze da esse derivanti. Di particolare rilievo furono l’occupazione del suolo e la gestione degli scambi commerciali, specialmente per mare, i quali ultimi, con l’importazione di merci di lusso, di costumi e di tecnologie avanzate, contribuirono ad aumentare le differenziazioni. Nel corpo sociale cominciarono allora ad emergere e ad affermarsi gruppi elitari che, disponendo di mezzi sempre più cospicui finirono col trasformarsi in ceto dominante, diventando protagonisti dell’incontro con i Greci. Da questo derivò una vera e propria accelerazione dei processi di sviluppo e di stratificazione sociale già in atto, che portò alla nascita delle aristocrazie e dell’affermarsi della civiltà urbana.
La nascita delle città

Nelle vicende di trasformazione e di evoluzione proprie dell’VIII secolo a.C. i centri più vivaci rimasero quelli della fascia meridionale costiera: prima di tutti Veio, Tarquinia e Vulci, poi anche Cere e Vetulonia. Lo sviluppo di tali centri si accompagnò al progresso e all’organizzazione delle loro attività marinare, già praticate in maniera disorganica e occasionale. Tali attività furono almeno in parte in diretto antagonismo con quelle dei Greci, ma la rivalità greco-etrusca sul mare non impedì il proseguimento dei proficui contatti e soprattutto il perdurare e l’intensificarsi dell’influsso della cultura greca su quella etrusca.

In questo ambito, a cominciare dall’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C. e per tutto il secolo successivo, si diffuse in Etruria la civiltà “orientalizzante” che determinò un generale cambiamento del gusto e del costume. Ma conseguenza degli apporti e delle influenze che al seguito dei commerci, e con gli oggetti importati, provenivano dalle regioni del vicino oriente furono anche le novità tecnologiche come il tornio del vasaio e le tecniche per la lavorazione dell’oro e dell’avorio, l’introduzione della coltivazione della vite e dell’ulivo, la diffusione della scrittura, l’adozione di nuove forme di organizzazione militare, l’introduzione di nuovi tipi di unità abitative e residenziali.

In un clima diffuso di ricchezza e di lusso, protagonisti della storia di questo periodo, fin dai primi decenni del VII secolo, furono le grandi famiglie dei “principi” (come li chiamano le fonti letterarie romane).

Le novità portarono tuttavia anche nuove esigenze per soddisfare le quali non restava che passare alle forme proprie dell’organizzazione urbana proposte anch’esse dai modelli provenienti dal mondo greco. Così, nella seconda metà del VII secolo a.C., nei luoghi dove si era concentrata la vita in comune, gli antichi agglomerati di villaggi andarono trasformandosi in vere e proprie città. Si trattò prima di tutto di Cere (in etrusco, probabilmente Caisri o Chisra o Chaire, donde il latino Caere, l’odierna Cerveteri); quindi di Veio (in latino Veii) e di Tarquinia (in etrusco Tàrchuna), che già erano stati centri di prima grandezza nel periodo villanoviano; poi di Vulci (in etrusco Velch) e Vetulonia (in etrusco Vetluna). Quindi il fenomeno si estese alle regioni dell’Etruria centrale interna e infine in quella settentrionale. Variamente favorite dalla loro posizione, si affermarono così Populonia (in etrusco Pupluna) che, direttamente sul mare, controllava l’isola d’Elba ricca di ferro, Roselle (in latino Rusellae) presso Grosseto, che sfruttava la via naturale di comunicazione rappresentata dalla valle dell’Ombrone; Volsini (in etrusco Velzna) sulla rupe orvietana, a dominio della confluenza del Paglia nel Tevere; Volterra (in etrusco Velathri) che controllava la Val di Cecina fino al mare; Fiesole (in latino Faesulae) protesa verso i valichi appenninici per la Pianura Padana. Praticamente, era l’intera Etruria che si avviava verso un periodo di splendida fioritura.
L’apogeo

Sul finire del VII secolo a.C. le città dell’Etruria, prime fra tutte quelle meridionali, iniziarono una vicenda che le vide per circa un secolo e mezzo tra le protagoniste della grande storia mediterranea. Si svilupparono notevolmente le attività produttive che, non più limitate a soddisfare le richieste del mercato interno, vennero destinate ai mercati esterni. Poi, a poco a poco, si affermò la vendita di quello che veniva prodotto per l’esportazione: sia nel settore agricolo, con la produzione dell’olio e del vino, sia nel settore artigianale, con la fabbricazione su larga scala delle ceramiche, i vasi che noi chiamiamo “etrusco-corinzi”, a imitazione della celebre e ricercata ceramica di Corinto, e quelli che chiamiamo “buccheri”, proposti anche in sostituzione dei vasi greci di metallo dei quali ripetevano le forme e l’aspetto esteriore. Queste attività posero in tutta la sua ampiezza il problema degli sbocchi commerciali, dando il via a precisi programmi espansionistici. Centri quali Cere, Veio, Vulci, le città economicamente e politicamente più forti e intraprendenti, ebbero di mira le regioni più vicine come il Lazio, o quelle strategicamente più importanti come la Campania, ma anche quelle più lontane come la Liguria e la Provenza.

L’espansione avvenne in forme e modi diversi. Nel Lazio, con l’acquisizione di un saldo controllo delle principali vie di comunicazione e dei più importanti nodi di traffico, sia marittimi (Anzio) che terrestri (Valle del Tevere): ad esempio, a Praeneste (l’odierna Palestrina), all’ingresso della Valle del Sacco, a Satricum, presso Aprilia, e soprattutto a Roma, che dominava un importante passaggio del Tevere, dove nel 616 a.C., secondo la tradizione confermata dall’archeologia, si insediò la dinastia di origine etrusca dei re Tarquini.

In Campania l’espansione avvenne attraverso l’intensificazione dei contatti già da tempo in atto con gli antichi centri di cultura villanoviana che subirono un processo di vera e propria etruschizzazione, come ad esempio Capua e Pontecagnano. In questa regione, tuttavia, l’affermazione etrusca provocò pure l’accendersi di rivalità e contrasti con la più antica componente del mondo greco in Italia, quella euboico-calcidese. In Liguria e in Provenza, infine, l’espansione si tradusse nella creazione di scali marittimi e di empori ai quali facevano capo le rotte provenienti dall’Etruria propria.

Questa fase caratterizzò tutto il VI secolo a.C. e non fu senza risvolti nelle situazioni interne, nelle strutture sociali e nell’organizzazione politica e istituzionale. Lo sviluppo delle attività commerciali fu così progressivamente sottratto al ceto aristocratico e le attività produttive furono organizzate in strutture comunitarie. In particolare, furono creati appositi centri di scambio fuori, ma non lontano, dalle città e tutto questo portò alla nascita di un nuovo ceto basato sul censo. Tale ceto, definibile in termini moderni come “classe media”, divenne presto il nerbo della popolazione urbana e finì per condizionare la vita delle città. Queste, divenute ormai autentiche città-stato, sul modello della polis greca, erano ognuna a capo di un esteso territorio che controllavano saldamente. Rimaste indipendenti l’una dall’altra, esse continuarono a sviluppare autonomamente le loro iniziative politiche ed economiche. Ma la mancanza di intese e programmi comuni portò spesso a diversità e contraddizioni di atteggiamenti, specie nei confronti dei nemici esterni, fino alle guerre “fratricide”.
Gli scontri con i Greci

Le fonti storiche greche ci parlano per il VI secolo a.C. di accese rivalità “internazionali” per il controllo delle rotte marittime, dandoci notizia di vere e proprie battaglie navali tra Greci ed Etruschi.

Così, ad esempio, nel caso della battaglia combattuta l’anno 535 a.C. circa, nelle acque del Mare Sardo, della quale ci informa Erodoto. Si tratta di uno degli episodi più salienti di tutta la storia etrusca, provocato dall’intrusione greca nel “mare di casa” degli Etruschi e, in particolare, dalla fondazione, intorno al 565 a.C., della colonia di Alalie (Aleria) sulla costa orientale della Corsica. Protagonisti di questa impresa erano stati i profughi della città di Focea, nella Ionia asiatica, che per sfuggire alla minaccia persiana si erano trasferiti a più riprese in Occidente e, attorno al 600 a.C., si erano stabiliti alle foci del Rodano fondandovi Massalie (Marsiglia). Gli scali marittimi e le stazioni commerciali che i Massalioti avevano installato nel Golfo del Leone e sulle coste del Mar Ligure misero così in crisi il commercio etrusco. Quando l’ultima ondata di Focei provenienti dalla madre patria occupati dai Persiani si stabilì in Corsica, gli etruschi furono costretti a reagire. A muoversi fu Cere, la quale si alleò con Cartagine, anch’essa seriamente danneggiata nei suoi interessi commerciali dall’intrusione focea. L’alleanza condusse allo scontro armato al quale presero parte sessanta navi dei Focei e altrettante di Etruschi e Cartaginesi . Stando sempre a Erodoto, a vincere furono i Greci, ma la vittoria rimase senza frutto “poiché - scrive lo storico - quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti rese inservibili”, sicché “essi tornarono ad Alalie, presero a bordo i figli, le donne e quanto dei loro beni potevano trasportare e, lasciata la Corsica, partirono verso Reggio”.

Alcuni dei prigionieri focesi furono portati a Cere e lapidati. Coloro che passavano sul luogo dell’eccidio, racconta ancora Erodoto, animali o uomini, “diventavano rattrappiti, storpi o paralitici”.

Gli Etruschi mandarono allora a interrogare l’oracolo di Delfi, il quale ordinò loro di celebrare sacrifici e di tenere ogni anno giochi per placare le anime dei Focesi massacrati.

Il successivo clamoroso episodio della lotta per il predominio del Mediterraneo di verificò agli inizi del V secolo a.C. nel 480 a.C. quando i Greci di Sicilia, accettando la supremazia dei Siracusani, affrontarono a Imera i Cartaginesi sbarcati in forze nell’isola sotto la guida di Amilcare. La sconfitta dei Cartaginesi fu un colpo anche per gli etruschi, benché non avessero partecipato direttamente al conflitto. Qualche anno dopo, nel 474 a.C., essi dovettero affrontare Cuma, ribelle al loro predominio in Campania, e il tiranno siracusano Gerone, da Cuma chiamato in soccorso. Furono sconfitti in una memorabile battaglia navale, che segnò l’inizio del declino della loro potenza sul mare. I Greci cominciarono ad assalire e saccheggiare le località etrusche della costa tirrenica, creando così un calo delle attività produttive degli Etruschi, che non potevano fare più affidamento sull’esportazione.

Anche sull’Adriatico gli Etruschi avevano cercato di espandersi. Tappe fondamentali la fondazione di Marzabotto, una sorta di stazione intermedia in Emilia sul percorso verso il delta del Po, e di Spina, sul mare. Spina era un emporio molto vivace, frequentato dagli Ateniesi, fino al IV secolo a.C., quando la presenza di questi sull’Adriatico cominciò ad essere contrastata e alla fine soppiantata dai Siracusani. Incidentalmente, era da questi mercati adriatici che transitava l’ambra, la resina giallastra reperibile sul Baltico, usata in gioielleria, per la quale donne, ma anche uomini, andavano matti. Ragioni economiche più che mire espansionistiche spiegano dunque il dilatarsi della presenza etrusca a nord e a sud della penisola.

Nel corso del V secolo a.C. due gravi pericoli si affacciarono ai due estremi del mondo etrusco: a nord, la pressione delle tribù celtiche penetrate da tempo in Italia attraverso le Alpi; a sud, l’incipiente espansionismo di Roma la quale, scaduta la tregua del 474 a.C., riprese con determinazione la guerra contro Veio.

Nel 396 a.C. Veio venne conquistata e distrutta, mentre il suo territorio fu incorporato nello Stato romano. Nello stesso anno della caduta di Veio, le fonti storiche parlano di occupazione da parte dei Galli della prima città dell’Etruria padana: una non meglio precisata Melpum che alcuni pensano di localizzare nei pressi di Milano o persino di identificare con essa.

Nell’Etruria meridionale, intanto, due fatti nuovi vennero a caratterizzare il IV secolo a.C. Da una parte ci fu la progressiva emarginazione di Cere che, sia pure pacificamente, finì col soccombere all’alleata Roma, alla quale cedette il suo antico ruolo. Da un’altra parte, ci fu invece il ritorno di Tarquinia, la quale grazie ad una accorta politica di sfruttamento delle risorse agricole del suo territorio, riuscì a superare la crisi che l’aveva lungamente abbattuta e a rifiorire, con ricchezza e potenza.

Ma l’accresciuta potenza e la sua stessa posizione geografica, portarono Tarquinia ad una situazione di antagonismo con Roma, che portò alla guerra scoppiata nel 358 a.C. e che si concluse nel 351 a.C. senza vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale.

Intanto sul fronte settentrionale finiva l’Etruria padana: nella seconda metà del IV secolo infatti l’onda celtica travolse tutti i centri etruschi della regione, compreso quello più importante di Felsina (Bologna), occupata dai Galli. Alla fine del IV secolo a.C. gli etruschi erano ormai ridotti entro i confini originari, peraltro già intaccati a sud dall’espansione romana.

Nel 311 a.C. si riaccese la guerra contro Roma. Ancora una volta l’iniziativa dovette essere degli Etruschi, ma protagoniste dello scontro furono ora le città centro-settentrionali, con a capo Volsini affiancata da Vulci, Arezzo, Cortona, Perugia e Tarquinia, svincolatasi dalla tregua appena scaduta. Nel 308 a.C. Tarquinia rinnovò la tregua, mentre Cortona, Arezzo e Perugia si arresero accettando condizioni umilianti.

L’anno 302 a.C. la guerra etrusco-romana, non ancora definitivamente conclusa, tornò a riaccendersi, per protrarsi, con una serie pressoché ininterrotta di campagne annuali, fino al 280 a.C.: i Romani quasi sempre all’attacco, gli Etruschi costretti alla difensiva e a rinchiudersi spesso nelle loro città fortificate.

Tra il 281 e il 280 a.C. si arresero per sempre Vulci e Volsini, mentre le città settentrionali si affrettarono a rinnovare i precedenti trattati di pace. Tutti infine dovettero sottoscrivere patti associativi o “federativi” (dal latino foedus, trattato), in forza dei quali mantenevano una formale indipendenza, con lo status giuridico di “alleate” (sociae), mentre, di fatto, accettavano la supremazia di Roma, ponendosi nei confronti di questa in rapporto di sudditanza.
L’Etruria “federata”

La capitolazione delle città etrusche e il loro ingresso forzato nell’alleanza con Roma segnò l’inizio dell’ultimo periodo della storia etrusca: quello che viene definito dell’Etruria “federata”. A fondamento del nuovo ordine imposto all’Etruria stavano dunque i vincoli federali derivanti dai trattati. Questi ebbero, a seconda dei casi, clausole speciali e diverse, particolarmente dure per le città che più direttamente si erano opposte a Roma e più lungamente e duramente avevano lottato contro di essa. Includenti tra l’altro anche l’imposizione di tributi e il controllo sulla pubblica amministrazione. In generale, i trattati imponevano a tutte le città di rinunciare a qualsiasi iniziativa politica autonoma; di riconoscere come propri gli amici e gli alleati di Roma e i suoi nemici; di fornire alla stessa Roma aiuti ogniqualvolta essa ne facesse richiesta, specialmente in occasione di guerre e con contributi di uomini e mezzi; di coordinare con gli interessi Romani ogni loro attività, anche di natura produttiva e commerciale; di garantire il mantenimento dei propri ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie aristocratiche; di accettare (o di richiedere) l’intervento di Roma in caso di gravi turbamenti sociali e di conflitti interni. L’aspetto positivo del sistema federativo consisteva nel fatto che le singole città continuavano a vivere la loro vita “locale”, sostanzialmente libera e autonoma, regolata e ordinata secondo i principi e le usanze della tradizione nazionale, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione.

La federazione fu messa a dura prova dall’invasione dell’Italia da parte di Annibale. La seconda guerra punica (218 - 202 a.C.) toccò l’Etruria soltanto marginalmente, durante la discesa dell’esercito cartaginese lungo la valle tiberina, ma l’impressione suscitata dalla disfatta subita dai Romani al Trasimeno, in territorio etrusco, fu tanto forte che nelle città etrusche si risvegliò qualche desiderio di rivincita. Ci furono dei movimenti di simpatia nei confronti di Annibale e qualche seria agitazione che costrinse i Romani a rafforzare i loro presidi. Poi comunque i patti vennero rispettati e ogni città diede il suo contributo prezioso prima alla resistenza e poi alla riscossa romana; in particolare quando, nel 205 a.C., furono forniti aiuti massicci a Scipione per l’allestimento della sua spedizione africana.

Tito Livio scrive in proposito che le città etrusche si comportarono ognuna secondo le proprie possibilità e ne elenca dettagliatamente i contributi: Cere dette frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tele di lino per le vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia fornirono legname per la costruzione degli scafi e frumento; Volterra frumento e pece per le calafature; Populonia ferro; Arezzo, infine, approntò grandi quantità di armi (3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000 giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro e 100.000 moggi (= antichi recipienti) di grano e rifornimenti di ogni sorta da servire per quaranta navi.

Con il I secolo a.C., tra il 90 e l’89, Roma concesse agli Etruschi i diritti di cittadinanza e nacquero così, tra l’80 e il 70 a.C., i municipi Romani dell’Etruria.

La realtà storica degli Etruschi venne infine consacrata con una delle regioni in cui la stessa Italia venne suddivisa da Augusto: la regione VII, alla quale toccò di perpetuare, fino alla fine del mondo antico, il nome glorioso dell’Etruria.

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