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lunedì 2 marzo 2009

Recensione svolta gratis L'isola di Arturo di Elsa Morante

Un'isola richiama alla mente l'universo dei sogni e delle immagini.

Così pure scomoda gli eroi dei miti e i simboli più ancestrali. Ingoia nostalgie e produce visioni, dirige partenze e attrae arrivi. Possiede moto proprio che è la controdanza alle onde e luce propria - risucchi e riverberi del mare. Può specchiarsi ritrovando se stessa e quindi rigenerarsi. Affermare il suo esistere nonostante, farsi eco e nome, accerchiata dall'indicibile. È balena che zampilla nel mare, ventre materno possessivo autogenerante: ispiratrice e vendicativa. Perché dà la vita e reclude, propone cammini che finiscono poi tutti a mare. Apre orizzonti. Dove il buio è ancora più colore si fa stella polare ai naviganti. E paesaggio della memoria per chi ha deciso di lasciarla. Il sortilegio dell'isola Se leggete L'isola di Arturo (1957), vi accorgerete quanto Elsa Morante sia riuscita a fondere realismo e allusione mitico-simbolica e a fare di Procida luogo reale e fantastico insieme. È libro propiziatorio, fondamento, ala che protegge e ti lancia nel profondo, fuori dall'aria. Prendono forma in esso tempo e spazio del meraviglioso. Arturo vive a Procida la sua infanzia e adolescenza, orfano di madre riveste di carattere mitico la figura del padre al quale lega i cicli vitali aspettando le stagioni e i suoi ritorni. Un padre scontroso e inarrivabile, che per lui incarna l'ideale dell'eroe bello, invincibile, la grazia e il sortilegio del dio. Arturo gode sull'isola di un'assoluta libertà nella dimensione magica dell'infanzia come momento irripetibile. E come esperienza dove lo spazio è quello rassicurante e ispiratore della "madre" e il tempo è la sicurezza immobile dell'esistere. Alcuni luoghi mitici dell'isola attraggono il protagonista: la casa-castello avvolta dal mistero, il penitenziario sulla sommità che attrae e sgomenta e poi il mare che a riguardarlo palpita come un innamorato. Ah, io non chiederei di essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei di essere uno scorfano, ch'è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell'acqua. Il narratore è proprio Arturo adulto e lontano che tira le fila della storia nel recupero memoriale. Ma perché sia tempo interiore, flusso di coscienza, occorre inserire il tema del destino, il divenire, l'adolescenza come scoperta della maturità e della morte. La scrittura del libro è tesa a comporre insieme la lingua colta e il dialetto, in un impasto linguistico di potente suggestione. Essa sfugge da un'imbrigliatura neorealistica, non rifiuta le citazioni da Saba, da Rimbaud, dall'aria di Figaro di Mozart. Arturo ama ricordare il "buffone" di Amleto e celata serpeggia l'allusione al mito di Ulisse. Fin da bambino egli legge libri sulle "vite degli eccellenti condottieri", segue a carboncino sugli atlanti "la scia sfavillante della nave di Arturo" ed elabora le "Certezze assolute" basate sull'eroismo, l'amore, la grandezza umana. Solo la morte si insinua a scalfire questo mondo e a farsi sfida adolescenziale. La prova che segnerà il distacco dall'isola verso la vita. La chimera I nuovi misteri che intravedevo, gli annunci inquietanti, indecifrabili, e i miraggi, gli addii dell'infanzia e della mia piccola madre morta e ripudiata, tornavano a ricomporsi nell'antica chimera multiforme che mi incantava. Questa chimera adesso mi rideva con altri occhi, tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci, sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l'ambiguità che mi imprigionava nell'isola come una ragnatela iridescente. Le tappe scandite dalla storia passano attraverso "l'età ingrata" e la scoperta dell'amore. Amore come privazione, solitudine, fantasia e tristezza. L'universo simbolico dell'amore e della bellezza salvifica si traduce nel tema del bacio (il "bacio fatale") con alcune sequenze attese e mai risolte. Il salto verso la maturità sta proprio in questo grumo simbolico che è carenza d'affetto, desiderio di incesto, sete di conoscere, irrequietezza della luce. La bellezza-innocenza dell'isola attraverso questa iniziazione che è fatta di turbamenti e sguardi (come quello della matrigna, "umido e meraviglioso, intinto di un vapore azzurro") porterà Arturo alla consapevolezza della storia (gli echi della guerra mondiale) e quindi della morte che va affrontata come una prova. Il distacco da Procida, sofferto perché "un incanto disperato mi tratteneva lì", porta alla consapevolezza della vita, del suo crescergli dentro e quindi allo svelamento di un sogno. L'isola non è più fortezza reale, ma incantesimo spezzato, luogo della mente, simbolo, paesaggio interiore. L'altra metà del sogno. Non mi va di vedere Procida mentre s'allontana e si confonde, diventa come una cosa grigia... Preferisco fingere che non sia esistita.

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