Ricerca appunti sul web

Ricerca personalizzata

lunedì 2 marzo 2009

Recensione libro Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde

Il romanzo narra le vicende di Dorian Gray, un bel ragazzo, che suscita, in quello che fino ad allora era

un pittorucolo, una vena artistica con la quale gli fa un ritratto bellissimo, ma che non esporrà perché "c'è troppo di sé in questo quadro". Un amico dell'artista, sentendo parlare così bene di Dorian, decide che vuol conoscerlo, ma commette quello che il pittore e, all'inizio Dorian stesso, interpretano come un errore: cercare di cambiarlo. Lord Enrico Wotton, l'amico dell'artista, aveva certamente la stoffa per fare il politico: buone doti oratorie e delle teorie sue, in questo caso su come vanno le cose al mondo, con le quali riesce a cambiare, o meglio far cominciare, la vita di Dorian. Egli prende quindi coraggio e fiducia, sia in sé stesso che in Lord Enrico, con dispiacere del pittore. Si innamora quindi di una brava attrice che però (o per sua fortuna, in quanto spiccava) lavorava in un teatro "di serie B". Quando ella comunica a Dorian la decisione di voler smettere di recitare per amor suo, egli le rispose che l'avrebbe lasciata perché aveva distrutto la sua migliore caratteristica. Per la disperazione, la ragazza si uccide e Dorian, a cui il pittore aveva donato il quadro, si accorge di un lieve cambiamento di quest'ultimo, che pensa dovuto alla sua sconsiderata reazione di fronte all'amata; infatti egli aveva espresso un desiderio al momento della donazione dell'opera a lui da parte dell'artista - amico: "Questo bellissimo quadro resterà così, con tutta la sua bellezza, ed io invece imbruttirò e questi mi deriderà. Vorrei che potesse invecchiare al posto mio!". Ma, come si sa, bisogna stare attenti ai desideri che si esprimono: potrebbero avverarsi. Dorian, distaccato completamente dalla realtà, ormai viveva in una specie di limbo, nel quale l'invecchiamento e l'imbruttimento del quadro era un terribile problema. Si fa confidare, inoltre, da Basilio (il pittore, che nel frattempo gli ha chiesto, inutilmente, sia di esporre il quadro sia di tornare a posare per lui) il motivo per il quale non ha voluto esporre il quadro, ma non gli confida il suo, di segreto, in quanto pensa che ne rimarrebbero entrambi turbati. Perciò, per evitare che qualcuno possa scoprirne il segreto, lo ripone in una stanza vecchia ed ormai in disuso della sua casa, ma vede dappertutto spie, il primo sospetto infatti è Vittorio, il suo cameriere. Su di lui in giro circolano molte dicerie su alcune sue azioni sinistre, e Basilio, prima di partire, ne vuol sapere il motivo, per cui Dorian lo invita a guardare il quadro. Al che Basilio è disperato per ciò che Dorian ha fatto della sua vita, ma il quadro "suggerisce" al ragazzo (ormai trentottenne) un odio profondo verso Basilio, che uccide crudelmente a coltellate. Ciò è l'apoteosi della sua sadica malvagità d'animo; aver ucciso un amico e rimanere del tutto indifferente, come se al posto di Basilio vi fosse stata una mosca. (Qui però abbiamo una grave dimenticanza di Wilde: non ha descritto subito il presumibile imbruttimento del quadro; e dopo gli sproloqui descrittivi fatti fin qui, non ha senso non farlo notare; avevo pensato ad un cambiamento di tono che coincideva con il mutamento della storia, ma poi, deluso, ho osservato che la tecnica descrittiva è rimasta la stessa). Poi però, pur non arrivando a dispiacersene, se ne pente per la paura di essere incriminato, e chiede aiuto, per disfarsi del corpo, ad un biologo o un medico (presumo), che successivamente si suiciderà; e, non potendo perdonarsi per aver ucciso un innocente, preferisce l'oblio, nella fattispecie per mezzo dell'oppio. Incontra qui il fratello di Sibilla Vane, l'attrice amata, morta diciotto anni prima, che vuole ucciderlo, e qui la sua bellezza gli serve per convincerlo che quando sua sorella è morta, egli era un bambinetto, ma l'incontro lo turba e lo spaventa, tanto che, quando un suo amico cacciatore uccide per sbaglio, senza colpa alcuna, un suo collega, si convince che debba succedergli qualcosa di simile. Scopre poi, rallegrandosene non poco, che l'uomo ucciso era Giacomo Vane, il fratello si Sibilla. Era salvo, e con la volontà di divenir buono. Voleva iniziare adesso una nuova vita. Ma il ritratto era peggiorato, sconvolgendo Dorian Gray. Si uccide, convinto che non si possa cambiare, ed il quadro si presenta, a chi vede la scena, come era nel tempo dei suoi antichi splendori.

Iniziamo dalle critiche: il libro non mi è piaciuto affatto. È scritto malissimo, l'autore usa sempre le stesse cento o duecento parole, non usa espressioni che abbiano un significato un po' più profondo delle lettere con cui sono scritte, non c'è un po' di retorica, qualche espressione colorita: più che un brano di letteratura sembra un manuale o qualcosa di simile, scritto da qualcuno senza fantasia, quasi come (non vorrei esagerare) se lo avesse scritto un alunno di una scuola media! Il contenuto c'è, ma "va cercato col lanternino". Se fosse stato scritto diversamente, sarebbe stato un buon libro. Toglie tutto il piacere del leggere, in quanto è, più che prevedibile, addirittura scontato! Non sto scherzando. Inoltre è di una ripetitività mai vista prima: non è possibile che, in venti capitoli (su venti) si verifichino quattro o cinque eventi: e con eventi intendo sia avvenimenti importanti, anche non ai fini della storia stessa, sia cambiamenti psicologici nei personaggi. Come potete vedere, in questa relazione il riassunto (che trovate all'inizio) comprende tutti gli avvenimenti del testo, sintetizzati in pochissime (relativamente alla lunghezza effettiva del libro) righe: è stato uno sforzo incredibile cercare di inserire, tra una riga e l'altra, qualche considerazione per allungarlo, ma quasi quasi me ne pento, vista l'impostazione di queste critiche, rivolte a stroncare (per quello che è nelle mie possibilità) il testo. Posso pensare che fosse rivolto ad un pubblico meno colto, e questo spiega in parte il linguaggio ed il tema trattato (del quale parlerò più avanti), ma, prendendo per buona questa ipotesi, non posso capirne l'eccessiva ripetitività, quasi che Wilde non avesse più niente da scrivere, o che volesse fissare molto bene in testa a chi lo legge ogni singolo avvenimento (riuscendoci). Le descrizioni, poi, non fanno che confermare la tesi dell'"alunno di scuola media", in quanto proprio questi scolari apprendono le tecniche descrittive, quindi, sulle prime, cercano di inserirle in ogni dove; e nel libro se ne fa un uso spropositato, sempre e comunque. In definitiva: poteva essere un libro migliore, se fosse stato scritto molto meglio. Sulla copertina c'è scritto: "Il capolavoro del Decadentismo", ma io, non per essere presuntuoso, non sono riuscito a vedercelo, il capolavoro (ma i temi decadenti, quelli fin troppo).
Le tematiche trattate, che sono quelle della bellezza che sfiorisce e della paura del cambiamento, non sono certo innovative: in un significato più ampio, possiamo trovarle perfino in Lorenzo de' Medici, o Il Magnifico, nei "Canti Carnascialeschi", dei quali riporto un famoso passo: "Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c'è certezza". Quello che ho voluto vederci io non è certo il motivo principale di quell'opera, ma ha un legame abbastanza forte con il testo oggetto di questa Relazione. Dorian, alla costante ricerca della bellezza, finisce con l'autodistruggersi gradualmente, perché il povero ragazzo, come tutti, sulle prime non ha uno specchio per l'anima (poi supplirà il quadro a questa funzione), come per il corpo, che molto spesso riflette esattamente il contrario di quanto fa lo specchio "dell'anima", quindi Dorian si ritrova ad avere, o meglio a non avere un animo, e quando ne acquisisce uno, finisce per non trovarcisi bene, poiché non è adatto a quello che tutti vedono di lui. Inoltre, al contrario degli altri personaggi, vive al di fuori della realtà, in un mondo tutto suo, che non ha assolutamente a che vedere con il mondo reale in cui vive. Questo contribuisce a creare quasi sempre una grande noia nel lettore nei confronti di Dorian, in quanto egli, spesso, non può entrare nella realtà propria del ragazzo, che vive quasi una doppia vita: quella sua reale, rivelata dal quadro, e quella che, seppur contrastata da alcune dicerie, tutti credono sia la sua.
La Critica

Grazie a Fabio Messina

Quando Oscar Wilde pubblica The Picture of Dorian Gray (1891) lo fa con il preciso intento di scioccare l'opinione pubblica mescolando un gusto del peccato tipicamente decadente ad elementi soprannaturali di tradizione gotica. L'allucinata vicenda del giovane idolo della società londinese, infatti, colpisce per i suoi contenuti morali, inaccettabili da un'Inghilterra puritana, e anche per la prefazione, vero manifesto dell'estetismo. Tuttavia, tra le righe, non si può non notare anche un messaggio di equilibrio morale: il protagonista, nel suo patto con il diavolo, finisce per rimanere invischiato e punito come il Faust della leggenda. Il principio "l'arte per l'arte" perde così il suo valore assoluto segnando la sconfitta di un uomo a cui la bellezza ed il suo culto non basteranno per lavare le brutture dell'anima. Le accuse dei benpensanti saranno parse quindi ridicole all'autore, che, del resto, ci avverte sin dalla prefazione: "Coloro che trovano laidi significati nelle cose belle sono corrotti senza essere affascinanti, il che è un difetto. Non esistono libri morali e libri immorali. I libri sono ben scritti, o scritti male. È tutto".
Nella vicenda del protagonista alcuni critici hanno cercato di individuare degli elementi autobiografici, ma l'opinione dominante li ricerca piuttosto negli altri due personaggi principali: il pittore Basil Hallward, affascinato da Dorian Gray su un piano squisitamente estetico, e Sir Henry Wotton, eloquente e brillante dandy. Il romanzo può anche essere interpretato come una violenta critica alla Londra aristocratica: il cinismo delle conversazioni dei salotti vittoriani e la vacuità dei rapporti umani corrompono infatti un ragazzo che, all'inizio del romanzo, ci appare uno splendido esemplare umano, ingenuo e fiero nella sua giovanile bellezza. Non bisogna però lasciarsi prendere la mano da questa "riabilitazione letteraria": la condanna del vizio non è un elemento che può porre il romanzo fuori da una atmosfera decadentista. Infatti l'esteta non sa rinunciare al culto della bellezza e vive questo in maniera morbosa. Da ciò il tema della caducità e dell'autodistruzione.
Evidente è anche la crisi dei valori-simbolo del positivismo. Nelle parole di Henry Wotton ne troviamo una amara conferma: "La base dell'ottimismo non è che il terrore, [...] lodiamo il banchiere per poter tenere scoperto il nostro conto corrente, e troviamo buone qualità nel rapinatore, sperando che risparmi le nostre tasche, [...] io nutro il più grande disprezzo per l'ottimismo".
Come per altri capolavori del decadentismo, tuttavia, la lettura "tra le righe" è giustificabile fino ad un certo punto. Il significato ed il messaggio non possono essere più di tanto allontanati dalla vicenda e dai termini in cui essa è posta. Il setaccio dell'interpretazione può infatti individuare i grossi grani delle allegorie medioevali ma più difficilmente riesce ad afferrare i retroscena di un animo tormentato come quello di un intellettuale di fine '800. Per capire dobbiamo dunque inserirci profondamente nella mentalità decadentista e accogliere le parole per ciò che esse evocano. Non a caso Wilde decide di utilizzare topoi letterari di lunga tradizione che accendono nel lettore reminescenze antiche, come quello del patto con il diavolo.
Dal punto di vista stilistico è infine interessante notare l'evoluzione subita dalla figura di O. Wilde: considerato dai contemporanei autore raffinato e "difficile", è diventato in seguito, per la sua semplicità sintattica, uno dei primi scrittori che prendono in mano gli stranieri che imparano la lingua inglese.

0 commenti: