La scuola filosofica dei pitagorici venne fondata da Pitagora, di cui non abbiamo notizie certe per quanto riguarda la vita.
Essa nacque in Grecia ma si sviluppò nella Magna Grecia, precisamente ci furono scuole a Sibari, Crotone, Reggio Calabria e Agrigento. Ma verso la fine del VI secolo venero cacciati via da queste città per le loro idee anti-democratiche, e addirittura la comunità di Crotone venne distrutta durante un tumulto polare, quindi continuò a sopravvivere in Grecia, a Tebe, dove vennero riorganizzate le conclusioni, cui la prima generazione di pitagorici era giunta, da una seconda generazione, di cui il più importante esponente fu Filolao.
Questa scuola si ispirava ai filosofi di Mileto infatti Pitagora (575-490/97 a.C.) fu un discepolo di Anassimandro, ma allo steso tempo riprendeva gli elementi dei misteri eleusini e dei culti orfici, che a loro volta si erano ispirati alle religioni orientali. Perciò la scuola dei pitagorici si era organizzata a mo di setta, comunque molto diversa dalle altre scuole filosofiche classiche. Infatti essa aperta a tutti, donne e stranieri compresi, ma prima dovevano purificarsi (come nei culti orfici) e sottoporsi ad una sorta di catechismo, che insegnava i principi che si dovevano applicare nella propria vita quotidiana: essi dovevano rispettare gli dei, essere fedeli agli amici, fare un esame di coscienza la sera, un progetto per la giornata la mattina, non dovevano mangiare né carne né fave, non dovevano indossare panni di lana e anelli, non potevano girarsi indietro per raccogliere qualcosa caduto, inoltre non potevano spezzare il pane o attizzare il fuco con il metallo. Per questo diciamo che alla fine questa scuola perde il suo carattere prettamente filosofico per poi prenderne uno di carattere più mistico e religioso, infatti il ruolo del filosofo si confondeva con quello dell’uomo politico e dell’educatore, dell’oracolo e del sacerdote.
Organizzazione all’interno della scuola
I pitagorici riprendono dai misteri eleusini l’esotericità, cioè i loro insegnamenti non erano destinati ad un pubblico vasto, ma solo agli appartenenti alla scuola, e questi non potevano rivelarlo a quelli che ne erano al di fuori, pena la morte. Ippaso di Metaponto, rivelò l’esistenza dei numeri irrazionali che i pitagorici avevano scoperto, e per tale colpa venne cacciato dalla scuola e ucciso. Per questo gli stessi antichi contemporanei ai pitagorici non sapevano con precisione quale fosse la loro teoria filosofica.
Gli insegnamenti impartiti dal maestro erano a carattere dogmatico, cioè dovevano essere presi come verità assoluta e non potevano essere contestati, come dice Diogene Laerzio, infatti il maestro all’inizio di ogni discorso soleva dire che non avrebbe tollerato nessuna insinuazione riguardo a quello che stava dicendo. Inoltre il maestro parlava dietro una tenda e chi riusciva a vederlo se ne vantava a vita. Qui viene proprio a mancare la caratteristica principale della filosofia, che ricerca la verità e non se ne arroga il possesso, inoltre la discute continuamente per cercare di raggiungere sempre la verità migliore. La base della ricerca filosofica è proprio la libertà di pensiero, di discussione e di confutazione. Nella scuola pitagorica questo principio cade.
All’interno della cerchia dei discepoli, c’erano due categorie: gli acusmatici, che potevano solo ascoltare e neanche potevano contestare ciò che diceva il maestro, e i matematici, che invece avevano la facoltà di parlare liberamente con il maestro e quindi di formare un’opinione personale. Successivamente questa distinzione andò ad indicare come gli acusmatici (coloro che ascoltano) quelli che si occupavano degli aspetti mistici e come matematici color che si occupavano di approfondire gli aspetti razionali del pitagorismo.
Caso strano nell’antichità, i pitagorici elaboravano le dottrine filosofiche lavorando in gruppo, non era il singolo che primeggiava ma la squadra, a differenza di altri filosofi di altre scuole (anche quelli di Mileto). Infatti Aristotele dopo aver parlato dei fisiologi, (Talete, Anassimandro e Anassimene), esamina i pitagorici, senza far distinzione fra Pitagora e i suoi discepoli.
La metempsicosi
I pitagorici credevano nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione dell’anima. Essi molto probabilmente avevano ereditato questa convinzione dai culti orfici, che a loro volta la avevano ripresa dall’induismo. I pitagorici ritenevano che l’anima fosse di origine divina e che quindi il corpo fosse una sorta di prigione, dalla quale essa si poteva liberare dopo aver passato alcune vite via via sempre migliori, fino alla purificazione (catarsi). Quindi ci si poteva anche reincarnare in animali, la cui carne per questo motivo non si poteva mangiare. Mentre nei culti orfici la purificazione si raggiungeva attraverso alcuni riti e una vita vissuta per questo scopo, i pitagorici ritenevano che la vita del matematico fosse quella più vicina alla purificazione, e alla sua fine l’anima sarebbe ritornata di origine divina e libera. Questo perché essi ritenevano che l’arché fosse nei numeri.
Un’altra teoria sull’anima venne elaborata dalla seconda generazione dei pitagorici, che riteneva che l’anima fosse in equilibrio con il corpo, e una volta rotto questo stato di armonia essa sarebbe morta.
L’arché nei numeri
Dallo studio della musica, che i pitagorici consideravano come la massima forma di armonia, dedussero che dietro essa ci fossero delle proporzioni numeriche. Allo steso modo esse dovevano essere dietro la natura, che appariva come un cosmo, cioè un universo ordinato. Si dice che sia stato Pitagora il primo ad introdurre il concetto di cosmo. Quindi l’arché per i pitagorici era nei numeri. Ma per meglio comprendere questa affermazione, dobbiamo spiegare che in Grecia il numero non era un concetto astratto ma aveva significato di proporzione armonica. Siccome il numero era anche rappresentabile geometricamente, esso può rappresentare anche le cose che esistono in natura.
L’armonia della natura è riconducibile quindi al numero, cioè alle proporzioni numeriche, che non rappresentano le cose, ma il principio, l’ordine che si trova dietro di esse e che non si può vedere, è intelligibile, cioè ci si può arrivare solo grazie al pensiero elaborando ciò che si è osservato. Quindi ad ogni numero corrisponde una cosa, che a sua volta ha dietro di essa una relazione numerica che la lega con le altre.
Quindi la natura delle cose si modella su quella dei numeri, quindi i contrari in natura (concetto che riprende da Anassimandro questo dei contrari) sono determinanti dai contrari numerici, che vengono individuati in numeri pari, imperfetti, o dispari, perfetti. A questi due insiemi erano associati rispettivamente i concetti di illimitato (apeiron) e limite (peras). C’era poi l’uno, che era parimpari, in quanto che se sommato ad un numero pari dava un numero dispari e viceversa.
I pitagorici individuavano i vari contrari fondamentali associati ai numeri pari o dispari: le determinazioni positive erano associate a numeri dispari mentre quelle negative a numeri pari. Inoltre ogni numero era carico di un suo significato fondamentale: l’uno, ad esempio era l’intelligenza, il sette indicava i momenti critici della vita (kairos), cioè il parto settimino, la perdita del primo dente da latte a sette anni, la pubertà a 14 e la maturità a 21. Il dieci invece, era il numero perfetto, formato dai primi quattro numeri e che conteneva i primi quattro pari e i primi quattro dispari, rappresentato da un triangolo equilatero. Dieci erano inoltre le opposizioni fondamentali individuate.
Insomma, alla fine i pitagorici sembravano più una setta che una scuola filosofica, per le loro convinzioni un po’ troppo rigide riguardo l’esoterismo dei loro insegnamenti o ai “precetti” che di dovevano rispettare nella propria vita. Solo le grandi scoperte riguardo l’intelligibile e l’arché come arché, che ancora oggi è adottato dalla scienza moderna (oggi i fisici studiano le leggi matematiche che sono dietro la natura e i suoi fenomeni) permettono ai pitagorici di sopravvivere nella storia e di essere ricordati per la loro filosofia; il loro modo di “filosofare” è troppo lontano da quello canonico, che tutto fa meno che dogmatizzare la verità raggiunta. Mi sono domandato se questa è vera filosofia, anche se le verità scoperte sono state grandi (arché nei numeri, il concetto di intelligibile). È conforme al carattere aperto della filosofia?
Concetto di intelligibile
I pitagorici furono i primi a dedurre che l’osservazione della natura fosse limitante per la filosofia, perché essa si poneva davanti al filosofo come un velo che non gli permetteva di vedere chiaramente cosa ci fosse dietro. Questo era però intelligibile, cioè col ragionamento si poteva arrivare a capire quello che si cela dietro la natura anche senza vederlo con i propri occhi. Il pensiero permette di oltrepassare questo velo e di conoscere la verità a color che ambiscono a scoprirla, che comprendono che fermarsi ai dati che provengono dai sensi sarebbe riduttivo. Coloro che operano questo metodo per arrivare alla verità più intima e profonda, sono definiti da Platone filosofi, mentre colore che si limitano all’osservazione della physis e ad avere verità sulla sua apparenza e non sul suo principio più intimo, sono definiti filodoxoi. Eraclito dice che coloro che si fidano delle apparenze hanno solo opinioni, che dice essere giochi da ragazzi. Essi, aggiunge, credono di sapere e capire ma sono sordi.
I pitagorici furono appunto i primi a sfruttare appieno le capacità del pensiero umano per giungere alla profonda convinzione che i numeri fossero l’arché, cioè che delle precise relazioni numeriche costituissero la base della natura e di tutte le cose che la compongono, che appaiono disposte armonicamente. Se si fossero basati solo sull’osservazione dell’apparenza, non avrebbero raggiunto che altre convinzioni simili a quelle dei fisiologi, sì la filosofia nasce grande, con grandi interrogativi, ma man mano che essa va avanti la risposta che si trova per essi è sempre più complessa e profonda.
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venerdì 27 febbraio 2009
Tema gratis Filosofia Pitagora
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