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mercoledì 25 febbraio 2009

Tema gratis Filosofia Aristotele

La vita
Aristotele nacque a Stagira, colonia ateniese nella penisola calcidica, nel 384-3 a.C.; frequentò l'Accademia a 17 anni e vi rimase per altri 20, fino alla morte di Platone.

Si è parlato di ingratitudine dell'alunno, ma questa lunga permanenza, l' influenza platonica in alcune opere e l'elegia dell'altare dimostrano il contrario. La stessa critica alla teoria delle idee nell' Etica nicomachea è preceduta dalla confessione della difficoltà nel fare ciò nei confronti della dottrina di un amico sebbene questo ostacolo debba venire superato per amore della verità. Probabilmente anche per il fatto di non essere ateniese e di non poter governare in una colonia divenuta macedone, è verosimile che Aristotele fosse più interessato alle materie scientifiche che a quelle politico-etiche. Uscito dalla scuola non condividendo l'indirizzo di Speusippo, con Senocrate si recò nella comunità di Asso ove insegnò. Neleo, figlio di Corisco, fu suo discepolo ed a casa sua pare siano state trovate opere di Aristotele. Successivamente egli soggiornò a Mitilene dove forse fondò una scuola.
In questa fase della sua vita avvenne il distacco dalla teoria delle idee-numeri, come testimonia Sulla Filosofia. Nel 342 Aristotele fu chiamato dal re macedone Filippo ad educare Alessandro; il futuro Alessandro Magno verosimilmente assorbì l'idea del maestro della superiorità della cultura greca, superiorità che sarebbe divenuta mondiale se accompagnata da unità politica. Il dissenso col discepolo si ebbe solo allorché questi volle unire i popoli orientali ed assumere le forme orientali di sovranità. Appena Alessandro salì al trono Aristotele tornò ad Atene (335-334) ove fondò una scuola nel ginnasio, il Liceo (detto così perché sorto vicino al tempio di Apollo Liceo), edificio comprensivo di giardino e passeggiata (perìpato, da cui scuola peripatetica) in cui si svolgevano lezioni di filosofia il mattino e di retorica e dialettica ad un pubblico più vasto il pomeriggio, secondo ordine rigoroso ed in uno stile di vita comunitario. Docenti furono anche gli scolari Teofrasto ed Eudemo. Esso era organizzato comunque come un tiaso. Nel 323 morì Alessandro: nonostante i rapporti col maestro si fossero già raffreddati (ad esempio Alessandro aveva mandato a morte un discepolo di Aristotele, Callistene, al suo seguito per scriverne le imprese) gli avversari di Alessandro vedendo in Aristotele un nemico lo accusarono di empietà e lo costrinsero a rifugiarsi a Calcide nell'Eubea dove aveva in eredità dalla madre un terreno. Egli giustificò questa fuga col non voler permettere agli ateniesi di peccare una seconda volta contro la filosofia. Morì nel 322-321.
La critica a Platone
Aristotele, allievo di Platone, pur assumendo stato suo allievo per ventenni, sostiene una propria linea filosofica che lo porterà a criticare il maestro, e questo suo atteggiamento è espresso nella frase "Amicus Plato, sed magis amica veritas", che ribadiva l'interesse dello stagirita soprattutto per la verità, e non di assumere come tale la parola di Platone. Innanzi tutto Aristotele critica la ricerca svolta da Platone, che ha cercato il vero essere in un mondo soprasensibile, tentando di spiegare in questo modo il mondo reale, che appariva mutevole e sfuggente perché soggetto al divenire (Platone diceva che il mondo fisico non poteva essere oggetto di un discorso vero ma verosimile, vista l'impossibilità di determinare con certezza matematica ciò che si percepiva con i sensi e non con i logoi, come il mondo iperuranio). Aristotele sostiene che il mondo delle idee non è in grado di spiegare il mondo fisico, come invece riteneva Platone, visto che tra le due realtà c'è frattura (chorismos). Al contrario il divenire, che per il divino costituiva un ostacolo la cui presenza impediva di conoscere scientificamente il mondo reale e di considerarlo come vero essere, per Aristotele è un fenomeno su cui concentrare gli sforzi della ricerca perché solo riuscendo a spiegare il mutevole divenire si può essere in grado di comprendere il mondo reale. Inoltre lo stagirita critica il suo maestro, esprimendo rispetto alla teoria delle idee ragionamenti di questo tipo: se esistono le idee per tutto ciò che è nel mondo fisico, esistono idee anche per le negazioni; ma ciò è contraddittorio, perché l'idea di una negazione si associa a tutto tranne il concetto che essa nega. Un'idea sarebbe cioè associata ad una molteplicità di cose diverse nel mondo fisico.
Aristotele nega quindi l'esistenza del mondo delle idee. Sostiene, infatti, che esse siano nella mente di chi le pensa e non abbiano quindi consistenza ontologica, come invece gli oggetti fisici, che per lo stagirita sono realmente esistenti, e non sono una "brutta copia" dell'idea. Per Aristotele è quindi possibile uno studio scientifico della natura, e il divenire, che per Platone era un impedimento alla conoscenza scientifica della stessa, diviene per Aristotele un oggetto di studio per cercare quei principi che rendano intelligibile il divenire. Inoltre Aristotele critica il maestro riguardo l'intellettualismo etico, servendosi della stessa metafora del maestro, ovvero quella della biga. Se è infatti la parte volitiva dell'anima a decidere se seguire la parte razionale o concupiscibile della stessa, essa può decidere sia se fare il bene sia se fare il male, anche se la parte razionale conosce il bene. Questa concezione verrà ripresa da S. Agostino, il quale affermerà che il peccato viene da un difetto di volontà degli uomini. Le opere che ci rimangono di Aristotele (molte sono andate perdute dopo la morte dei suoi allievi diretti) sono state organizzate da un dotto greco del I sec. a.C., Andronico di Rodi, secondo la suddivisione delle scienze aristoteliche.
La dottrina del sillogismo e la scienza
Aristotele studia la teoria del sillogismo, definendolo genericamente un meccanismo grazie al quale, partendo da determinate premesse, si arriva ad una conclusione. Un sillogismo tipico presenta la seguente struttura:
Premesse:
• Tutti gli uomini sono mortali
• Tutti i filosofi sono uomini
Conclusione:
• Tutti i filosofi sono mortali
La parte nominale della conclusione è detto termine maggiore e il suo soggetto termine minore; le premesse in cui essi compaiono sono dette rispettivamente premessa maggiore e minore. Il termine che compare in entrambe le premesse è detto termine medio. Nel nostro caso il termine maggiore è mortali, il termine minore è filosofi, il termine medio uomini; la premessa minore è la 2, la maggiore è la 1.
È importante notare che un sillogismo è valido, cioè porta ad una conclusione vera, solo quando entrambe le premesse sono vere. Se la 1 del caso sopracitato fosse stata falsa, ad esempio "Tutti gli uomini sono immortali", il sillogismo avrebbe portato ad una conclusione falsa, cioè "Tutti i filosofi sono immortali."
Aristotele riprende l'essere di Parmenide
Per Aristotele il mondo reale ha consistenza ontologica, ma non può rientrare nella rigida distinzione di essere e non essere come sosteneva Parmenide, ritenuta dallo stagirita troppo sommaria. Esistono infatti diverse categorie di essere: ad esempio possiamo affermare che sia un uomo che un colore esistano, ma il loro "esistere" è differente. Pertanto Aristotele è convinto che ente sia ciò che "Si dice in molti modi" e quindi necessita di una classificazione. Il filosofo ne indica 10 categorie: sostanza, qualità, quantità, rapporto, dove, quando, giacere, avere, agire, patire. Fra queste la più importante è la sostanza, che è un sostrato (hypokèimenon), perché è un ente che ha un autonoma capacità di sussistenza (l'uomo, ad esempio, esiste indipendentemente da altre categorie di enti). Quindi tutte le altre categorie di enti sono definiti accidentes (alla latina), cioè cose che accadono all'ente. Perciò il colorito di un uomo, che è un ente che rientra nella categoria di qualità, non è un sostrato perché esso è in stretta dipendenza dall'uomo di cui costituisce il colorito, la contrario l'uomo, essendo un sostrato, esiste indipendentemente da quel colorito.
Aristotele e il divenire
In questo paragrafo esamineremo sommariamente senza spiegare le quattro cause che Aristotele indica come causa del divenire e i concetti di atto e potenza, anch'essi in fondamentali per spiegare il divenire. Successivamente li riprenderemo per avere una visione più globale della filosofia di Aristotele. Le quattro cause sono:
• Causa materiale: la materia di cui è composta la cosa stessa
• Causa formale: le caratteristiche morfologiche e funzionali che fanno di un oggetto proprio quell'oggetto e lo distinguono da un altro. Una casa è tale solo se ha la forma di una casa, non lo sarebbe se gli stessi materiali di cui è costituita venissero disposti in un altro modo (ad esempio se venissero usati per fare un ospedale).
• Causa motrice: ciò che determina l'inizio del cambiamento;
• Causa finale: il fine in vista di cui opera il mutamento.
Per Aristotele le quattro cause sono relative: infatti un mattone può essere la causa materiale di una casa e contemporaneamente causa formale dell'argilla di cui è composto. Ogni cosa è infatti un synolon (tutt'uno) tra forma e materia, e questa unione è inscindibile. Aristotele, per la cronaca, è il primo ad introdurre nel linguaggio filosofico il termine hyle, cioè materia.
Strettamente collegata alle quattro cause è la teoria dell'atto e della potenza. La potenza o dynamis è la possibilità, la potenzialità che ha qualcosa di operare un mutamento; l'atto invece rappresenta due concetti: enèrgheia ed entelècheia. Entelècheia indica la condizione di qualcosa che ha già attuato le proprie potenzialità; enèrgheia indica il processo attraverso cui si giunge all'entelècheia oppure l'attuarsi delle funzioni proprie di un oggetto già in atto. Anche questi concetti, come quelli delle quattro cause, sono relativi: un bambino, ad esempio, è contemporaneamente un seme in atto e un uomo adulto in potenza. Infine, occorre puntualizzare la priorità dell'atto rispetto alla potenza. Per portare avanti l'esempio del bambino, infatti, perché nasca un bambino (un uomo in potenza) è necessario un altro uomo in atto.
Aristotele: per metà naturalista e per metà platonico
Come promesso nel paragrafo precedente, ecco la spiegazione d'insieme della filosofia di Aristotele. Quando lo stagirita tenta di spiegare il divenire con le quattro cause, sembra quasi un naturalista, ma poi esprimendo i concetti di atto e potenza Aristotele ritorna sulla via metafisica già tracciata dal maestro.
Affermando che sostanza non è altro che il sinolo, cioè l'unione tra materia e forma, Aristotele critica apertamente Platone, che sosteneva l'esistenza di una frattura (chòrismos) tra il mondo ideale e il mondo fisico, che si traduceva quindi in una divisione tra la forma delle cose (eidos) e la materia che le costituiva (hyle), visto che le idee erano l'eidos senza la hyle (se ne fossero state costituite sarebbero state soggette al divenire e quindi non sarebbero state più il vero essere). Anche la causa formale segue la scia dei naturalisti, poiché la forma distingue le cose indipendentemente della causa materiale. Qui sembrerebbe addirittura vicino a Democrito ed egli stesso afferma che la vera ricerca naturalistica è quella che ha fatto l'atomista e non il suo maestro Platone.
Ma proprio quando sembra che con lo stagirita la natura artigiana di sé stessa dei naturalisti stia per prendersi la rivincita sul demiurgo platonico, Aristotele ricomincia a seguire la via metafisica del maestro. Infatti, al momento di chiarire cosa sia più importante tra forma e materia, Aristotele afferma che l'eidos è più importante, perché è il carattere distintivo delle cose, che rende la medesima hyle cose diverse (una frittata e un uovo in camicia hanno la stessa causa materiale, l'uovo, ma sono distinti perché hanno una causa formale diversa fra loro, anche se quella materiale è la medesima). Qui si può notare l'ombra di Platone che torna con la sua teoria delle idee sulla filosofia del discepolo: la forma di Aristotele, infatti, sembra avere tutte le caratteristiche dell'idea di Platone. Oltre ad essere più importante della materia, essa per Aristotele è ingenerata e eterna. Quindi con questa convinzione smentisce anche i naturalisti, perché la physis di Eraclito, il grande supporter del divenire, dava origine a forme sempre diverse attraverso il divenire.
Inoltre nega anche la possibilità di un'evoluzione come aveva supposto Anassimandro. E proprio Darwin, lo scopritore della teoria dell'evoluzione della specie, si compiace in uno dei suoi trattati perché Aristotele ha le stesse sue idee e ne cita un frammento: in realtà in questo passo lo stagirita aveva riportato un pezzo preso da un'opera di Democrito e alla riga successiva, che Darwin non lesse, egli afferma che tutto quello che l'atomista aveva riferito rispetto all'evoluzione era sbagliato.
Alla domanda "Chi è nato prima, l'uovo o la gallina?" Aristotele risponde "la gallina". Questo perché egli si rifà al concetto di preminenza dell'atto rispetto alla potenza, per cui l'atto precede la potenza: solo un uomo in atto può dare origine ad un bambino, cioè ad un uomo in potenza, che a sua volta darà origine,una volta in atto, ad un altro bambino. E così all'infinito. Perciò è necessario che la forma sia sempre esistita, perché solo l'uomo genera l'uomo.
E così perché il divenire si verifichi, è necessario che ci sia qualcosa già in atto affinché lo possa originare. Ma se anch'essa avesse potenzialità, allora dovrebbe essere mossa da un qualcosa in atto. Per cui c'è bisogno di un principio che sia atto puro perché si possa innescare il meccanismo del divenire, rendendo così la natura artigiana di sé stessa. Allo stesso tempo questo motore deve essere anche immobile, perché secondo Aristotele tutto ciò che si muove lo fa perché è mosso da qualcos'altro. Seguendo questa logica si arriva alla definizione di motore primo immobile, responsabile del movimento di tutto il cosmo.
Il motore primo immobile
Aristotele aveva affermato che una sostanza formata da eidos senza hyle era una caso limite, un'astrazione metafisica. E anche il motore primo immobile rientra in questa categoria. Come detto in precedenza, esso deve essere privo di potenzialità e deve anche essere immobile, pertanto non è composto di hyle, perché se no si muoverebbe e sarebbe anche soggetto al divenire, cosa che costringerebbe alla ricerca di un altro motore primo.
Essendo immobile e atto puro, l'ultima sfera, quella delle stelle fisse, desiderandolo come l'oggetto del suo amore, tenta di imitare il suo stato di quiete muovendosi di moto circolare uniforme, che è quello più perfetto, dando origine ad un simile movimento a tutte le altre sfere concentriche, terra compresa, e divenire anche. Così il motore immobile provoca il movimento senza toccare, perché se toccasse sarebbe impuro, ma solo facendosi bramare dalla sfera delle stelle fisse. Ma se lui "contraccambiasse", non sarebbe più puro, pertanto il motore primo immobile, già pensiero perché eidos senza hyle, non può far altro che aspirare a sé stesso. Per questo Aristotele lo definisce noesis noèseos, cioè "pensiero del pensiero". Il motore primo immobile, per tale "costituzione fisica", viene a coincidere con il divino, con dio. Per questo motivo la filosofia scolastica dialoga e accetta l'aristotelismo, infatti se dimostro in questo modo razionale l'esistenza del divino, dimostro anche l'esistenza di Dio.
La fisica di Aristotele contro la fisica moderna: la sconfitta della scienza aristotelica
Aristotele individuava quattro tipi di mutamento in natura:
• secondo la sostanza (nascita, morte, corruzione)
• secondo la quantità (aumento, diminuzione)
• secondo la qualità (alterazione, trascolorare)
• locali o di traslazione (il movimento vero e proprio)
Il movimento viene poi suddiviso in naturale (cioè proprio di un elemento naturale) e violento (cioè procurato). I movimenti naturali sono per Aristotele propri dei quattro elementi tradizionali (fuoco, aria, acqua, terra). Ognuno di essi tende infatti ad una posizione, o luogo naturale, diverso rispetto agli altri: il fuoco verso l'alto, la terra verso il basso, l'acqua e l'aria verso posizioni intermedie (con la prima inferiore all'altra). Aristotele spiega così fenomeni come una pietra che cade o una fiamma che tende verso l'alto.
I quattro elementi costituiscono il mondo terrestre, cioè il pianeta Terra e lo spazio immediatamente circostante ad esso. Oltre i confini della luna, Aristotele afferma l'esistenza di un mondo celeste, dove si trova per natura un quinto elemento, l'etere, eterno e incorruttibile. Questa suddivisione ricorda molto l'iperuranio platonico, in cui c'erano le idee, eterne e incorruttibili.
Il cosmo è per lui un insieme di sfere di etere concentriche che si muovono di moto circolare uniforme. Gli astri sono incastonati in una di queste sfere, detta "sfera delle stelle fisse". Con quest'affermazione Aristotele concepisce lo spazio qualitativamente; le diverse aree dell'Universo, per lui, sono tali perché luoghi naturali dei quattro elementi. La fisica moderna a partire dal seicento si scrolla di dosso l'aristotelismo, sostenuto dalla Chiesa, che bloccava ogni innovazione in campo scientifico se andava contro le affermazioni di Aristotele, impedendo ogni dimostrazione scientifica con due paroline che sembravano quasi magiche "Ipse dixit", che volevano dire: così ha detto Aristotele e pertanto ciò è verità. Qualsiasi altra cosa era sbagliata. Bene nel seicento gli scienziati riescono a far prevalere i numeri, le dimostrazioni scientifiche e razionali, a discapito delle teorie sostenute da Aristotele. A sua difesa possiamo dire che all'epoca non aveva certo gli stessi mezzi dei fisici e dei matematici che confutarono la sua fisica, frutto di un ragionamento a cui non potevano seguire riscontri reali e strumentali precisi.
La fisica del seicento introduce il principio di inerzia, secondo cui un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme se non intervengono altre cause esterne (forze) a variarne il suo moto. Viene così smentito il "Ab alio movetur" di Aristotele. Inoltre lo spazio della scienza moderna non è più legato ai luoghi naturali, ma è isotropo: cioè ogni punto è uguale ad un qualsiasi altro e gode delle stesse proprietà.
La legge di gravitazione universale di Newton ci dice che un corpo risente della forza di gravità che la terra esercita sui corpi sia che si trovi sotto terra sia sopra. Un esempio un po' anacronistico può chiarire le differenze. I satelliti artificiali, ad esempio, secondo le teorie di Aristotele dovrebbero tendere a salire perché si trovano nel luogo naturale dell'aria, invece essi rimangono stabili in orbita perché la forza di gravità a cui sono sottoposti si equilibra con la forza centrifuga che li porterebbe fuori dal campo gravitazionale terrestre.
Il vivente e l'anima
Gli studi biologici di Aristotele costituiscono la base della zoologia scientifica moderna; inoltre hanno grande influenza sul suo pensiero. Aristotele enuncia il concetto di specie identificandolo con quello di causa formale; la forma è quindi l'insieme di caratteristiche per cui un cane è definito un cane e non un cavallo o una capra. Con la specie si identifica anche la causa finale: lo scopo di ogni specie animale è infatti quello di preservarsi.
Aristotele studia anche l'anima. Egli la definisce il principio vitale di ogni vivente e afferma che è inconcepibile come separata dal corpo: corpo e anima costituiscono il synolon dell'organismo vivente. All'anima sono attribuite tre facoltà: nutritiva, sensitiva, razionale. La facoltà nutritiva presiede alla nutrizione e alla riproduzione; la seconda è propria degli organismi dotati di sensi più o meno sviluppati, la terza invece è la porta della conoscenza razionale. I vegetali hanno solo la facoltà nutritiva, gli animali la nutritiva e la sensitiva, gli uomini tutte e tre.
Aristotele confuta Platone in quanto alla separazione rigida fra conoscenza sensibile (ritenuta ingannevole da Platone) e razionale. Per Aristotele la conoscenza sensibile è l'inizio di un processo che si compie con la conoscenza razionale. Per conoscere, infatti, è necessario percepire.
La sensazione si attua attraverso i cinque sensi; l'oggetto sensibile si attua quando viene percepito, ma è solo in potenza fino a quel momento. Inoltre per le caratteristiche percepibili da più sensi (come la grandezza) vi è una sintesi fra i cinque sensi chiamata senso comune.
Virtù etiche e dianoetiche
Per Aristotele tutte le azioni degli uomini hanno come fine un bene, che a sua volta serve al conseguimento di un altro; c'è però un bene che dev'essere ricercato come fine a se stesso, il bene supremo. Questo bene supremo si identifica con la felicità e con l'eudaimonia, cioè "l'essere in compagnia di un buon demone". La felicità, poi, non consiste in beni terreni come onore, ricchezza o piacere; la felicità è prerogativa dell'uomo come la conoscenza razionale, quindi essa coincide con l'esercizio della ragione a livello di eccellenza. La felicità, insomma, coincide con la virtù.
Le virtù dell'uomo per Aristotele sono divise in etiche, proprie della componente sensitiva dell'anima, e dianoetiche, proprie di quella razionale.
Le virtù etiche si acquistano attraverso l'abitudine e la volontà, sono quindi una "disposizione" virtuosa dell'animo che si ottiene (si attua) attraverso il costante esercizio di azioni virtuose (altrimenti le virtù rimangono in potenza). In questo Aristotele critica Socrate e Platone e il loro intellettualismo etico, secondo cui la conoscenza del bene necessariamente porta ad una vita vissuta compiendo solo buone azioni, in quanto che il male non può essere compiuto se si conosce il bene. Secondo Aristotele invece per compiere il bene è fondamentale la volontà di farlo. La virtù etica consiste, in definitiva, nella volontà di compiere il bene. Essa è anche il punto medio tra i due estremi, l'eccesso e il difetto: la parsimonia, ad esempio, si ottiene evitando l'avarizia e la prodigalità; il coraggio invece evitando di volta in volta la viltà e la temerarietà. La giusta misura è relativa, in rapporto alla persona che la compie. Pertanto l'uomo virtuoso è il mediocre, inteso come persona forte che è in grado di resistere agli estremismi. La giustizia si identifica con la virtù in quanto ricerca dell'equilibrio; Aristotele distingue in essa due connotazioni. La giustizia distributiva vuole che i beni siano assegnati in proporzione ai meriti; la giustizia regolatrice ristabilisce l'equilibrio fra i cittadini quando esso viene violato (ad esempio nel caso di un furto).
Le virtù dianoetiche invece sono la manifestazione dell'eccellenza della facoltà razionale dell'anima. All'interno di essa Aristotele traccia una distinzione: egli individua una componente scientifica che si limita alla conoscenza teorica di ciò che non può essere altrimenti da come è e una componente calcolativa che si applica a ciò che può essere altrimenti da come è e che è quindi in nostro potere. Le virtù dianoetiche sono:
a. Proprie della facoltà scientifica:
o Epistème (scienza) che è attitudine alla dimostrazione;
o Noùs (intelligenza) che è disposizione a conoscere i principi;
o Sophìa (sapienza) che comprende le precedenti;
b. Proprie della facoltà calcolativa:
o Tèchne (arte);
o Phrònesis (saggezza).
Saggezza e sapienza stabiliscono due diversi tipi di felicità: la saggezza è alla portata di tutti, la sapienza è propria del filosofo. Per Aristotele la sapienza è la massima virtù in quanto rappresenta la parte dell'anima per cui essa è assimilabile al dio (in quanto noesis noeseos).

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