Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304, da padre notaio in esilio da Firenze.
Ad otto anni si trasferì ad Avignone, dove cominciò i suoi studi. A dodici anni fu inviato all'università di Montpellier per gli studi di diritto, e a sedici all'università di Bologna. A ventidue anni, alla morte del padre, tornò ad Avignone. Questo continuo viaggiare lo porta a contatto con diversi ambienti culturali, cosa che gli permetterà di svincolarsi dal municipalismo dantesco e di entrare in una dimensione europea. Il Petrarca era molto appassionato dei classici antichi, in particolare di Virgilio e Cicerone, la cui lingua aveva a tal punto interiorizzato da scrivere i propri appunti ed esprimere i suoi sentimenti più intimi in latino. Ma allo stesso tempo la sua vita fu condizionata dalla lettura delle Confessioni di S. Agostino, nel cui tortuoso percorso spirituale il Petrarca si riconosceva. Dobbiamo infatti distinguere due produzioni del Petrarca: una in latino, alla quale appartengono le Epistule (tra cui l'Ascesa al monte Ventoso), il Secretum, l'Africa, il De vita solitaria, e l'altra in volgare alla quale appartengono il Canzoniere e una serie di opere minori. Il 6 aprile 1327 avviene l'incontro con Laura nella chiesa di S. Chiara ad Avignone. Proprio a questa donna, vera o fittizia che sia, si ispirerà tutta l'opera del Canzoniere. Dopo di che per garantirsi un relativo benessere economico senza lavorare, prende gli ordini minori. In questo periodo si svolgono i viaggi che si concluderanno attorno al 1336 con il ritiro in otium in Valchiusa, dove compone il De vita solitaria e altre opere in latino e in volgare. Nel 1341 a questo momento di ricerca spirituale si oppone l'incoronazione di poeta nel Campidoglio, che concretizza il suo forte desiderio di gloria terrena (la stessa Laura può essere intesa come L'aura, ovvero la gloria). Nel 1343 il fratello Gherardo si ritira in convento. Questo causa nel Petrarca una profonda crisi interiore, poiché vedeva nel fratello una sorta di alter ego in cui rispecchiarsi. Ciò lo porta ad una profonda revisione della sua vita, e in particolare emerge sempre più drammatico il dualismo tra il desiderio di amore e di gloria terrena, valori tramandati dalla lettura dei classici, e il desiderio di abbandono spirituale in Dio, insegnatogli dalle Confessioni. Per questo Petrarca è considerato la vittima del passaggio dalla cultura teocentrica medievale alla cultura antropocentrica umanistica. Dopo la morte di Laura nel 1348, Petrarca incomincia la sua peregrinazione nelle corti delle varie signorie italiane, senza mai farsi condizionare o esserne influenzato. Muore nel 1374 a Padova, secondo la tradizione mentre leggeva Virgilio.
L'Ascesa al monte Ventoso
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La lettera, che fa parte delle Familiari, narra la scalata al monte Ventoso, presso Avignone, compiuta da Petrarca insieme al fratello. E indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro Il racconto assume chiaramente un valore allegorico, cioè di un'esperienza che deve servire di insegnamento. Ciò che spinge Petrarca ad intraprendere la scalata è in primo luogo la curiosità di scoprire; ma in secondo luogo vi è anche la volontà "umanistica" di emulare l'esperienza di un antico (Filippo di Macedonia). Il primo significato allegorico dell'ascesa al monte è la conquista del mondo esteriore, poi, raggiunta la meta, si ha un rovesciamento radicale. La vista del mondo esterno, faticosamente conquistata spinge Petrarca soprattutto ad indagare se stesso, lo scrittore sa vedere a fondo nel proprio animo, mette in luce "quel doppio uomo" che è in lui. Questo passaggio prepara la presa di coscienza centrale di tutta l'esperienza dell'ascesa. Petrarca arriva a capire che la verità abita nell'interiorità dell'uomo. Non è un caso quindi se, nel disegno del racconto, Petrarca sceglie una frase di Agostino come fonte della sua presa di coscienza, avviando così il processo della sua conversione.
Il Secretum
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Nel III libro del Secretum Agostino mira a liberare l'animo di Francesco da due errori più pericolosi, l'amore per la gloria e l'amore per Laura. Francesco si difende sostenendo che il suo amore è stato solo spirituale, e che lo ha purificato e innalzato interiormente. Agostino, al contrario, con abili e stringenti argomentazioni, lo induce a confessare che ha amato la bellezza fisica di Laura, e che questo amore è stato origine non di elevazione, ma di traviamento, è stato la radice da cui sono scaturite tutte le più basse passioni del suo animo.
Il dialogo si presenta anche in forma drammatica come lo scontro tra due codici culturali. Quella di Francesco è la concezione cortese e stilnovistica dell'amore che raffina, ingentilisce e innalza moralmente; con Agostino si contrappone la concezione cristiana che smaschera il carattere sensuale e peccaminoso che si cela dietro quelle sublimazioni. La pagina presenta un groviglio irrisolto di impulsi e contrasti: ma la forma che li esprime è tersa e nitida, di perfezione classica. Il latino di Petrarca tende a uniformarsi ai modelli più illustri della poesia antica, in particolare a quelli di Cicerone.
Il Canzoniere
Il Canzoniere è un'opera in volgare composta da 366 liriche, di cui 263 composte prima della morte di Laura e 103 dopo la morte. I componimenti sono per lo più sonetti, ma ci sono anche ballate, canzoni, madrigali. Come dice nel sonetto di apertura del Canzoniere, "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono" questi componimenti non sono collegati fra loro (rime sparse) come quelli di Dante nella "Vita Nova", raccordati da pezzi in prosa. Inoltre essi rispecchiano i vari stati d'animo del poeta, tra illusioni e disillusioni di un amore non corrisposto (come ad esempio nei due sonetti gemelli 61 e 62 "Benedetto sia 'l giorno 'l mese e l'anno" e "Padre del ciel, dopo i perduti giorni", in cui si può vedere una netta contrapposizione degli stati d'animo del poeta). Il tema principale del Canzoniere è l'amore per Laura, ma si potrebbe anche intendere come il desiderio di gloria del poeta poiché il nome Laura si può intendere anche come L'aura, cioè la gloria, poiché con un rametto di lauro viene incoronato il sommo poeta. A differenza del dolce stil novo, in cui il protagonista è lo stato d'animo, in Petrarca è il conflitto interiore del poeta, diviso tra i fini materiali della vita (amore e gloria) e aspirazione al misticismo in Dio. Al contrario della Beatrice di Dante, infatti, Laura non è la donna-angelo veicolo tra il poeta e Dio, ma non è che una nobilissima creatura terrena (in "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi" viene addirittura descritta da vecchia), e pertanto l'amore verso di lei allontana dalla fede in Dio. Tutta questa esperienza viene ripresa intersecando vari piani temporali: da uomo maturo riesamina col tempo della memoria gli avvenimenti passati confrontandoli con la situazione presente o addirittura facendo previsioni sul futuro. In questo Petrarca è molto moderno: tutta la letteratura del Novecento che utilizza il tempo della memoria di rifà a strutture già usate da lui (Proust, Svevo, Joyce, ecc.). La figura di Laura non è descritta dettagliatamente, ma è semplicemente tratteggiata attraverso i topoi della bellezza proveniente dallo stilnovismo ("bionda", "occhi luminosi come un lago", "capelli d'oro", "viso di perla", "voce soave"), per questo essa in "Chiare fresche e dolci acque" "pare", cioè appare, non è quindi reale. Tutta questa esperienza si conclude con la richiesta di perdono a Dio per questo "giovenile errore", e anzi nella lettera ai posteri Petrarca ringrazia che Dio gli abbia tolto Laura (muore nel 1348) così da permettergli di riprendere a camminare sulla via che porta a Lui.
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono (I)
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango e ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
e del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Parafrasi: (grazie a Tommaso) Voi che ascoltate, espressi in componimenti slegati tra loro, / il suono di quei sospiri che alimentavano la mia passione amorosa / al tempo del mio primo traviamento amoroso giovanile / quando ero, seppur in parte (traccia di quella passione permane ancora) un altro uomo rispetto a quello che sono ora: / spero di trovare comprensione, nonché perdono, / del mutevole stile con cui esprimo la mia sofferenza e parlo / oscillando tra le vane speranze e il vano dolore (vani perché terreni). / ovunque vi sia qualcuno che, avendolo provato, sappia cosa sia Amore. / Ma ora mi rendo ben conto di come fui per molto tempo una favola / per tutta la gente ignorante, visto che / io stesso mi vergogno di me, / e del mio perdermi dietro a cose vane sono conseguenze / il vergognarmi, il pentirmi e il capire chiaramente / che quanto piace nella vita terrena non è altro che una breve illusione.
In questo sonetto il poeta si rivolge ad un pubblico ben specifico, ovvero a quelli che soffrono le pene dell'amore, presso il quale spera di trovare perdono e comprensione poiché a causa di questo sentimento, frutto di uno sbaglio giovanile, quando il poeta era ben diverso dall'uomo che è oggi, non solo ha commesso un errore dal punto di vista morale, mettendo da parte Dio, ma anche dal punto di vista letterario, visto che l'amore ha prodotto sotto quest'aspetto dei componimenti slegati fra loro e che esprimono sentimenti contrastanti, frutto di diversi stati d'animo del poeta. Dopodiché si rende conto che a causa del suo vaneggiar d'amore egli è divenuto la favola del popolo e quindi si vergogna di sé stesso e il frutto del suo amore è la vergogna stessa. Il sonetto si conclude con la presa di coscienza che tutto ciò che c'è di terreno è vano.
Passato-presente: (grazie a Annarita Biondi) Nel sonetto si intrecciano diversi piani temporali (espressi da altrettanti tempi verbali): c'è il presente, che è il tempo del pentimento e della presa di coscienza, e il passato, tempo dell'errore. Per questo questi due piani temporali sono in contrasto e lo possiamo vedere nel v. 4. Petrarca nel proemio si rivolge a coloro che soffrono le pene dell'amore, presso i quali spera di trovare perdono e comprensione poichè a causa di questo sentimento, frutto di uno sbaglio giovanile, quando il poeta era ben diverso dall'uomo che è oggi, non solo ha messo da parte Dio, ma ha anche prodotto, dal punto di vista letterario, dei componimenti slegati fra loro e che esprimono sentimenti contrastanti, frutto di diversi stati d'animo. Dopodiché si rende conto che a causa del suo vaneggiar d'amore egli è divenuto la favola del popolo e quindi si vergogna di sé stesso e la vergogna stessa è il frutto del suo amore. Il sonetto si conclude con la presa di coscienza che tutto ciò che c'è di terreno è vano.
Ecco i topoi presenti nella poesia (se il vostro docente è fissato con questa roba!!):
* Sospiri, topos che risale agli stilnovisti; solo alla vista della donna amata l'amante sospira.
* Verso 11, in cui il Petrarca dice di essere la favola del popolo, già usato da Orazio nell'Epodo libro 11 versi 7-8
* Il verso 14, in cui Petrarca afferma che tutto quello che è terreno è vano, esprime un concetto già definito nelle "Ecclesiaste"
Anche un po' di analisi formale:
La lirica è un sonetto, e anche in questo caso si intrecciano diversi piani temporali (espressi da altrettanti tempi verbali): c'è il presente, che è il tempo del pentimento e della presa di coscienza, e il passato, tempo dell'errore. Per questo questi due piani temporali sono in contrasto e lo possiamo vedere nel verso 4 (quand'era in parte altr'uom dal quel ch'i' sono)
Era il giorno ch'al sol si scoloraro (III)
Grazie a mirko83@virgilio.it
Era il giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i' fui preso, e non me ne guardai,
ché i be' vostr'occhi, donna, mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d'Amor: però m'andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s'incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio e varco:
però al mio parer non li fu onore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l'arco.
Il sonetto rievoca il giorno dell'innamoramento per Laura, corrispondendo una corrispondenza con il giorno della Passione, il venerdì santo. Alla base del discorso vi è dunque un parallelismo voluto. Questo parallelismo se paragonati a quelli della poesia amorosa dantesca permettono di cogliere la distanza tra i due poeti. Nella "Vita Nova" i segni che accompagnano la morte di Beatrice sono gli stessi della morte di Gesù: con questo Dante vuole sottolineare il significato mistico della donna. In Petrarca invece l'amore per la donna e l'immagine di Cristo sono in opposizione, anzi, l'amore è di ostacolo alla salvezza.
Movesi il vecchierel canuto e bianco (XVI)
Grazie a mirko83@virgilio.it
Movesi il vecchierel canuto e bianco
del dolce loco ov'ha sua età fornita
e da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;
indi traendo poi l'antiquo fianco
per l'estreme giornate di sua vita,
quanto più pò, col buon voler s'aita,
rotto dagli anni, e dal cammino stanco;
e viene a Roma, seguendo 'l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassù nel ciel vedere spera:
così, lasso, talor vo cercand'io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.
Il sonetto si fonda su una similitudine tra il vecchio pellegrino in cerca di Cristo e il poeta in cerca nel viso di altre donne la forma di Laura. Al motivo religioso si collega quello della vecchiaia che evoca il trascorrere del tempo che distrugge le cose umane, tematica ripresa in Erano i capei d'oro a l'aura sparsi. Un altro tema presente nel sonetto è quello della pietà e degli affetti sottolineata dai diminutivi.
Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno (LXI)
Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno
e la stagione e 'l tempo e l'ora e 'l punto
e 'l bel paese e 'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m'ànno;
e benedetto il primo dolce affanno
ch'i' ebbi ad esser con Amor congiunto,
e l'arco e le saette ond'io fui punto,
e le piaghe che 'nfin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia Donna ho sparte,
e i sospiri e le lagrime e 'l desio;
e benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e 'l pensier mio,
ch'è sol di lei; sì ch'altra non v'à parte.
In questo sonetto il poeta esprime gioia, dovuta forse ad un'illusione che Laura avrebbe corrisposto il suo Amore. Non si spiega altrimenti l'invocazione della benedizione per il momento in cui lui ha incontrato Laura, per la prima pena d'amore dovuta all'incertezza di essere corrisposto o meno, per il momento in cui Amore ha trapassato con le frecce il suo cuore . Il poeta continua nelle due terzine sottolineando ancore la benedizione per le parole di lode e per gli scritti con cui ha parlato di questa donna, che gli daranno la fama.
Elenco dei topoi:
* begli occhi: topos stilinovista dello sguardo
* il primo dolce affanno: topos provenzale della sofferenza e dell'incertezza che segue subito l'innamoramento dovuto alla preoccupazione di non essere corrisposti
* Amor: personificazione dell'amore
* arco e saette: uso di paragoni bellici per parlare dell'amore, topos proveniente da Cavalcanti e anche da Guinizelli
* fama: motivo della fama, che spiegherebbe anche il secondo modo di intendere Laura (vedi spiegazione canzoniere)
Padre del ciel, dopo i perduti giorni (LXII)
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch'al cor s'accese,
mirando gli atti per mio mal sì adorni,
piacciati omai col Tuo lume ch'io torni
ad altra vita ed a più belle imprese,
sì ch'avendo le reti indarno tese,
il mio duro avversario se ne scorni.
Or volge, Signor mio, l'undecimo anno
ch'i fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i più soggetti è più feroce.
Miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier' vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.
Questo sonetto rappresenta la preghiera a Dio di Petrarca nella quale lo supplica i perdonarlo per essere stato preda dell'amore. In questo sonetto, il 62, l'amore è definito come un fero (cioè feroce) disio, mentre in quello precedente, il 61, cioè "Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno" esso viene addirittura benedetto. Ecco, sono questi gli "sbalzi d'umore" cui alludeva il poeta nel sonetto d'apertura "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono", che hanno portato a componimenti dai sentimenti contrastanti (rime sparse). Petrarca continua la sua invocazione a Dio chiedendogli di farlo ritornare ad una vita così meritoria, così che il suo avversario, il demonio, resti sconfitto. Inoltre chiede al Signore, allora che ricorreva l'undicesimo anniversario da quando il poeta era stato messo sotto il giogo dell'amore, di ricondurlo al bene.
Elenco dei topoi:
* fero desio: topos di Guinizelli
* Giogo: topos dell'amore visto come un giogo
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (XC)
Grazie a Annarita Biondi
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avvolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color' farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?
Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro, che pur voce umana.
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi; e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
La figura di Laura (notevole il senhal l'aura = Laura per celare il nome della donna, espediente ricorrente in Petrarca) non è descritta dettagliatamente, ma è semplicemente tratteggiata attraverso i topoi della bellezza proveniente dallo stilnovismo; al contrario della Beatrice di Dante, però, Laura non è la donna-angelo veicolo tra il poeta e Dio, bensì una nobilissima creatura terrena che nel sonetto viene addirittura descritta mentre sta invecchiando; il poeta continua ad amarla anche se alla donna sta venendo meno la bellezza fisica. La contrapposizione dei piani temporali è evidente: la prima quartina inizia con "erano", imperfetto della memoria e della rievocazione della bellezza di Laura, e finisce con "or", avverbio che riporta l'attenzione sul presente e sulla vecchiezza della donna. Al verso 6 la narrazione ritorna al passato, dove alla rievocazione della bellezza di Laura viene affiancato il ricordo dell'innamoramento. Il ritorno al presente al verso 13, utilizzato in senso gnomico, conclude la lirica in uno stato di universalità temporale: l'amore resta immutato nonostante lo scorrere del tempo.
Elenco dei topoi:
* capei d'oro, begli occhi, viso di pietosi color', le parole / sonavan altro: topoi provenzali della donna amata
* parea: significa appariva, e richiama il Dante di "Tanto gentile e tanto onesta pare"
* l'andar suo [...] d'angelica forma, spirto celeste: formule che ricordano la donna-angelo dello Stil Novo, anche se caricate di un significato meno ascetico e più umano
Se lamentar augelli, o verdi fronde (CCLXXIX)
Grazie a Annarita Biondi
Se lamentar augelli, o verdi fronde
mover soavemente a l'aura estiva,
o roco mormorar di lucide onde
s'ode d'una fiorita et fresca riva,
là 'v'io seggia d'amor pensoso et scriva,
lei che 'l ciel ne mostrò, terra n'asconde,
veggio, et odo, et intendo ch'anchor viva
di sì lontano a' sospir' miei risponde.
"Deh, perché inanzi 'l tempo ti consume?
- mi dice con pietate - a che pur versi
degli occhi tristi un doloroso fiume?
Di me non pianger tu, ché miei dì fersi
morendo eterni, e ne l'interno lume,
quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi".
Laura nel sonetto subisce una profonda "trasfigurazione" che consiste in un totale cambiamento di visione della donna da parte del poeta. La morte di Laura, è questo il tema del sonetto, porta Petrarca a ringraziare Dio di avergli privato di avvicinarsi a Laura quando era in vita così da permettergli di riprendere a camminare sulla via che porta a Lui. Anche la stessa Laura, nell'immaginazione del poeta, invita Petrarca a considerare la sua morte in chiave cristiana (vv. 12-14).
Chiare, fresche e dolci acque (CXXVI)
Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co' l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole estreme.
S'egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.
Tempo verrà ancor forse
ch'a lusato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa e lieta,
cercandomi: ed, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m'impetre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l'onde;
qual con un vego errore
girando parea dir: Qui regna Amore
Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, e sì diviso
da l'immagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
questa erba sì, ch'altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco, e gir in fra la gente.
In questa canzone il poeta si trova sul fiume Sorga in Valchiusa, e la visione di quel luogo gli fa ricordare Laura, che aveva vista in quel medesimo luogo. Sul filo della memoria descrive Laura, e quell'attimo in cui la viene dilatato nel tempo della memoria (per capirci, ci mette quasi una strofa per descrivere come ha visto Laura in quell'attimo). Inoltre la dolce ragazza non ha più le sue caratteristiche reali ma è stilizzata, cioè il poeta seleziona dal reale gli elementi poeticamente o soggettivamente trasfigurabili, cioè che si adattano allo stato d'animo del poeta: ne risulta una Laura appena tratteggiata, delicata, descritta utilizzando molti topoi della bellezza stilnovista (bionda, occhi luminosi, voce soave, capelli d'oro, viso di perla, ecc.). Anche il paesaggio risulta segnato, cioè perde le sue caratteristiche individuali e reali e acquista quelle di Laura. Abbiamo qui il locus amenus, cioè un paesaggio stilizzato (o segnato) che fa da sfondo ad un personaggio altrettanto stilizzato. E nella seconda strofa della canzone il poeta chiede ad Amore di lasciare riposare, una volta morto, in questo locus amenus, che sembra un porto sicuro per il poeta al momento di affrontare quel passo che gli lascia del timore. Nella terza strofa Petrarca si augura, che una volta morto, Laura, torni, non feroce come quando lo aveva fatto soffrire in vita, ma mansueta, e cercandolo in quel locus amenus veda che egli giace morto lì e asciugandosi gli occhi piangenti chieda al cielo di accogliere l'anima del poeta. Nella quarta strofa il poeta ritorna a viaggiare sul tempo della memoria, che viene definita dolce, e si ricorda Laura, la cui descrizione è appena tratteggiata, sul cui corpo cadono petali di fiori che sembrano quasi dire che il quel luogo regna amore. Per questo il poeta afferma che la donna amata è nata in cielo. Ma pochi versi dopo arriva la presa di coscienza: il viaggio nella sua memoria lo ha allontanato e distaccato dalla realtà, facendogli credere che ci fosse il paradiso là dove effettivamente non è (dove si è posata Laura). La canzone si conclude con l'invocazione al componimento, che potrebbe andare in giro fra la gente, uscendo dal locus amenus, se avesse tanti pregi artistici quanti ne vorrebbe il poeta.
Elenco dei topoi:
* Par: l'uso di questo verbo tipico degli stilinovisti per sottolineare la rarefazione della donna
* sospir: l'amore porta la sofferenza e quindi fa sospirare (in Dante il sospiro è invece volontà dell'amante di migliorarsi per arrivare al livello di perfezione della donna amata)
* Amor: personificazione dell'amore
* fera bella e mansueta: il tema della donna petra sperimentato da Dante
* gli occhi che lacrimano
* pioggia di fiori: immagine della donna ricoperta da una pioggia di fiori, che verrà ripresa in tutto il Rinascimento, anche in pittura (Botticelli).
* divin portamento: topos del portamento tipico del dolce stil novo
* Invocazione alla canzone: topos che parte dai provenzali (Arnaut Daniel) passa per lo stilnovo (Cavalcanti) e arriva fino a Petrarca. Il poeta prende consapevolezza della sua opera e si rivolge direttamente a lei.
Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena (CCCX)
Grazie a mirko83@virgilio.it
Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena,
e i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia.
Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
l'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena;
ogni animal d'amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch'al ciel se ne portò le chiavi;
e cantar augelletti, e fiorir piagge,
e 'n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge.
sonetto è costruito su un'antitesi: il ritorno della primavera porta con sé serenità e amore, che pervadono tutta la natura; da tanta serenità è escluso il poeta, che la gioia accentua il suo dolore per la morte della donna amata. Il motivo del ritorno della primavera e folto di reminiscenze classiche: Catullo, Orazio; si mescolano con rimandi mitologici (Filomena, Giove) inoltre la rappresentazione della natura primaverile è estremamente stilizzata e ricalca tutta la serie di topoi fissati dalla convenzione letteraria.
Quel rosignuol, che sì soave piagne (CCCXI)
Grazie a mirko83@virgilio.it
Quel rosignuol, che sì soave piagne,
forse suoi figli, o sua cara consorte,
di dolcezza empie il cielo e le campagne
con tante note sì pietose e corte,
e tutta notte par che m'accompagne,
e mi rammente la mia dura sorte:
ch'altri che me non ho di ch'i' mi lagne,
ché 'n dee non credev'io regnasse Morte.
O che lieve è inganar chi s'assecura!
Que' duo bei lumi assai più che 'l sol chiari
chi pensò mai veder far terra oscura?
Or cognosco io che mia fera ventura
vuol che vivendo e lagrimando impari
come nulla qua giù diletta, e dura.
Ritorna il rapporto tra le manifestazioni della natura e l'animo del poeta: ma al contrasto si sostituisce l'analogia. Di qui si sviluppa il tema della presa di coscienza della labilità delle cose. Solo la morte dissolve l'inganno. Torna così l'immagine tipicamente petrarchesca, della bellezza femminile sottoposta alla forza disgregatrice del tempo. L'apprendimento dell'amara lezione si traduce nella riflessione conclusiva che richiama il tema biblico della vanità del tutto. Anche qui vi sono riferimenti classici. L'immagine dell'usignolo è ispirata a Virgilio.
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mercoledì 4 marzo 2009
Tema svolto gratis Francesco Petrarca
Pubblicato da Baiox alle 05:17
Etichette: Letteratura Italiana
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