A volte basta un dettaglio, un gesto o una parola, a provocare un avvenimento storico deci-sivo: ben inteso un avvenimento già maturo, ma ritardato, trattenuto dalla convenienza po-litica.
Ad affrettare la caduta del Muro fu l'incauta battuta di un funzionario la sera del 9 novembre 1989. Poche sillabe, semplici, in apparenza innocue, che si rivelarono una formula magica ed ebbero un effetto dirompente. Furono pronunciate alle 18,57 di quel giorno di mite au-tunno prussiano: e, in quell'istante, si chiuse un'epoca, fu la fine geopolitica del secolo, in anticipo rispetto al calendario gregoriano.
Il nuovo capo di Berlino Est, voleva dimostrare la sua adesione alla glasnost, la politica della trasparenza promossa a Mosca da Gorbaciov. Era appena succeduto a Erich Honecker e ci teneva a distinguersi dall'esponente della vecchia guardia, troppo fedele al comunismo di guerra per adeguarsi a un comunismo che si voleva liberale, quindi in disarmo. Per questo aveva consentito la trasmissione in diretta delle conferenze stampa serali, le quali erano se-guite da milioni di tedeschi. In tempi di crisi ritmati da sempre più imponenti manifestazioni di protesta, erano spettacoli carichi di suspense.
Krenz e non era certamente un esperto della comunicazione. Quella sera annunciò un nuovo "decreto sui viaggi". Disse che d'ora in poi i permessi per recarsi nella Berlino occidentale, attraverso i varchi del Muro, sarebbero stati rifiutati soltanto in casi eccezionali. Era chiaro che il governo allentava le redini sotto la pressione popolare. Le quotidiane disubbidienze di massa e l'assenza delle rituali repressioni rivelavano la fragilità del potere. I quattrocento-mila soldati sovietici, acquartierati dal 1945 nella Germania Orientale, non intervenivano più per ripristinare la sovranità limitata nel paese satellite: pensavano piuttosto a come sbarca-re il lunario, poiché nella madre patria c'era un clima da bancarotta e i soldi per le paghe e la sussistenza arrivavano in modo irregolare da Mosca. In quanto ai soldati tedeschi, neppu-re loro osavano puntare le armi contro i connazionali da quando Gorbaciov si era installato al Cremlino e aveva escluso l'uso della violenza per imporre l'ordine nell'impero.
L'annuncio si iscriveva in questa nuova realtà. Non c'era bisogno di ulteriori spiegazioni. Il regime barcollava e cedeva terreno. Fu un anziano cronista a porre con candore, senza ren-dersene conto, una domanda esplosiva. Chiese a partire da quando quel decreto sarebbe entrato in vigore. A quelle parole, "da adesso", milioni di tedeschi sobbalzarono. Se era ne-cessaria un'autorizzazione, sia pur facile da ottenere, il decreto non poteva essere valido da quell'istante, in quell'ormai tarda sera. L'irrazionalità della risposta assomigliava a una resa incondizionata o era un sintomo del panico in cui ormai affondava il governo.
In realtà Egon Krenz pensava di rendere operativo il decreto soltanto l'indomani, facendo rispettare i tempi burocratici, quindi frenando, disciplinando l'apertura a Ovest. Ma il suo portavoce, per imprudenza, travolse i ritmi stabiliti, e accelerò probabilmente i successivi tempi che condussero al crollo della Ddr e quindi alla riunificazione.
Appena ascoltate le parole sfuggite, i tedeschi orientali cominciarono a discuterne il signifi-cato, prima davanti ai televisori, in famiglia, poi al telefono con gli amici, e più tardi sulle piazze. In serata gruppi di giovani si presentarono al passaggio del Muro. L'esercito non a-veva ordini precisi. Che fare? I giovani passarono indisturbati. Dietro di loro si formarono code interminabili. La gente uscì dalle case e s'incamminò verso la parte occidentale della città. E' raro capire l'importanza degli avvenimenti mentre si svolgono sotto i tuoi occhi. In quelle ore non si potevano avere dubbi: il comunismo reale aveva ammainato la bandiera a Berlino, settantadue anni dopo averla issata su Pietrogrado, durante la Rivoluzione d'Otto-bre. Nel frattempo, da emblema di un'utopia quella bandiera si era trasformata in un muro di cemento, stile carcerario, lungo centosessanta chilometri. Certo, adesso, dieci anni dopo, con il senno di poi, uno vede tutto chiaro, e può spiegare che quel giorno si concluse un'in-terminabile dramma europeo. Un dramma estesosi via via al resto del mondo.
Era cominciato con la Grande Guerra, nel 1914, e poi era proseguito durante tutto il secolo con spettacolari, tragici colpi di scena: il naufragio sanguinoso della Russia zarista, l'avvento dei Soviet, il crollo dell'impero tedesco, l'incendio del Reichstag, Auschwitz, il gulag, la guer-ra fredda, l'Europa divisa: e all'improvviso, nel 1989, crollava come un fondale di cartapesta il simbolo concreto di quella divisione, ossia della sfida tra le due opposte concezioni del mondo emerse nel '900.
Quel giorno segnava la fine di una lunga serie di avvenimenti concatenati uno all'altro, ma benché saltasse agli occhi il significato essenziale, non era ancora misurabile l'ampiezza sto-rica di quel che accadeva. L' URSS restava in piedi e la Germania restava formalmente spaccata in due. Il polverone che si alzava dalle macerie del comunismo era troppo fitto per intravedere il nuovo panorama.
Il Muro era stato uno dei pilastri portanti del Continente diviso, il suo crollo poteva provoca-re imprevedibili mutamenti. L'Europa Occidentale l'aveva condannato e vituperato ma aveva prosperato alla sua ombra; l'Europa Orientale l'aveva costruito e ufficialmente venerato, ma al suo riparo era deperita fino al collasso. I comunisti lo definivano un baluardo contro il fa-scismo, mentre era di fatto una barriera per impedire un'evasione di massa dal comunismo, o se si vuole una corsa sfrenata verso il consumismo. Doveva essere una trincea e risultò un monumento funebre. La caduta del Muro dissanguava l'Est e scaricava sull'Ovest il pesante onere del recupero postcomunista.
I sentimenti erano esaltanti, i calcoli finanziari e politici molto meno. La più divertente ed elegante strada di Berlino, esplode nei grandi magazzini, migliaia di coppie, di famiglie, con bambini e zaini in spalla, e la pianta della città tenuta come una bussola nella giungla, guar-davano estasiate, ipnotizzate, le vetrine, le scarpe, le mutande, le calze, i magnetofoni, le fotografie, i giornali esposti nelle edicole, i libri, i reggiseni, le Porsche parcheggiate lungo i marciapiedi, il berretto del vigile urbano, le insegne luminose, tutto quel che si muoveva o era immobile nella città della cuccagna, l'ambulanza che passava a sirene spiegate come il semaforo spento in segno di rassegnazione nel caos del traffico ingovernabile. Questa era Berlino Ovest nelle ore che seguirono la caduta del Muro. Era come se la popolazione fru-strata di una lontana, remota periferia si fosse abbattuta sul centro della metropoli.
Sotto gli occhi dei tedeschi arrivati da Berlino Est sfilavano infatti cose e persone scrutate avidamente per decenni sui teleschermi, seguendo tutte le sere, nel segreto delle famiglie, i programmi occidentali, a lungo vietati e poi via via tollerati e infine permessi da Honecker, il guardiano dell'ortodossia comunista, ormai nell'impossibilità di impedire alle trasmissioni di scavalcare il Muro.
La caduta del Muro, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, fu improvvisa: ma il fulmine non lacerò un cielo sereno. La tempesta era in arrivo da tempo. Altrimenti la barriera eretta nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nel cuore della vecchia capitale del Reich, non sa-rebbe crollata tanto facilmente. Dal'47, dall'inizio della guerra fredda, l’URSS vigilava sul-l'ordine europeo uscito dalla Seconda Guerra mondiale. La dottrina della sovranità limitata aveva legittimato numerosi interventi armati: nel '53 a Berlino Est, nel '56 a Varsavia e a Budapest, nel '68 a Praga: e garantiva la presenza delle truppe del Patto di Varsavia, ossia sovietiche, sul territorio dei paesi satelliti, chiamati democrazie popolari.
Ma nel mezzo degli anni Ottanta l' Urss di Mikhail Gorbaciov era sull'orlo del collasso di fron-te all'America di Ronald Reagan. Il fallimento era anzitutto economico, ma numerose scon-fitte politico-militari avevano aggravato la situazione: in Angola nell'81, in Nicaragua nell'89, e nello stesso anno in Afganistan. A questi insuccessi bisognava aggiungere il ben più grave ritiro incondizionato dei missili nucleari sovietici a medio raggio installati in Europa. Una de-cisione che equivaleva a una resa nella corsa agli armamenti diventata insostenibile per Mo-sca.
Le riforme economiche (perestroika) e la liberalizzazione politica (glasnost) decise da Gor-baciov, nel disperato tentativo di cambiare la natura del regime, ossia di governare con il consenso invece che con la repressione, erano apparsi nell'Europa Orientale evidenti segni di debolezza del centro dell'impero. Segni che consentivano un più vasto terreno di manovra a paesi come la Polonia e l'Ungheria, i quali avevano anticipato l'evoluzione in corso nell’URSS. A Budapest, nella primavera dell'88, era stato sbalzato di sella Janos Kadar, e si era acceso un rude confronto tra i sostenitori di una netta svolta in direzione della democra-zia e dell'economia di mercato e i più prudenti sostenitori di riforme graduali, nello stile promosso da Gorbaciov. Nell'aprile dell '89, in Polonia, il compromesso della "tavola roton-da" aveva ratificato la vittoria di Solidarnosc; e le prime libere elezioni avevano portato, in settembre, a un governo presieduto dal cattolico Mazowiecki. Il tutto era avvenuto senza minacce militari interne o esterne. Quello che sarà chiamato l'autunno dei popoli poteva dunque cominciare. Non c'era il pericolo che sulle piazze europee si ripetesse quel che era accaduto in giugno a Pechino, sulla Tienanmen.
Il comunismo prussiano sembrava un'isola immune da ogni contagio. In ottobre, in occasio-ne del quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica, a Berlino Est migliaia di giovani in camicia azzurra avevano sfilato davanti a Honecker e a Gorbaciov. E c'era stata una parata militare al passo dell'oca. Sembrava un trionfo ed era invece un funerale. Quello del regime.
Nell'estate migliaia di tedeschi orientali avevano raggiunto la Germania Occidentale aggi-rando il Muro e attraversando l'Ungheria che aveva aperto i confini. Honecker voleva dimo-strare all'ospite che, nonostante quelle evasioni di massa, il paese non era un laeger dal quale tutti volevano fuggire. La gioventù giurava fedeltà e l'esercito garantiva la stabilità e-sibendosi.
In realtà Honecker era il regista di una farsa. Appena svestita la camicia azzurra del comu-nismo prussiano i giovani andarono a gonfiare le manifestazioni di protesta: e appena smesso il passo dell'oca le forze armate si decomposero come quelle di una repubblica delle banane.
Ricerca appunti sul web

Ricerca personalizzata
lunedì 23 febbraio 2009
Tema gratis IL Muro Di Berlino
Pubblicato da
Baiox
alle
11:15
Etichette: Temi Attualità, Temi Storici
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento